Qualche mese fa, gli assidui frequentatori del mensile patinato e macho-pop Max , hanno potuto fare la conoscenza semi-biblica della scrittrice Isabella Santacroce, apprezzandone di sicuro non solo la bellezza, ma l’eleganza e la decadenza di un portamento (chissà perchè viene spontaneo pensare a Patrizia Valduga) senza veli, da far accapponare la pelle. Ma l’interesse verso questa autrice sembra non estinguere mai il suo fuoco, tanto che sul numero dell’11 -24 ottobre 2005 del quindicinale Stilos, Gianni Bonina traccia con segno marcato in una splendida intervista, una mappa della produzione scritturale, dello stile, dei tratti distintivi della più discussa, ambigua, dolcissima, infernale, protagonista femminile nel variegato universo della letteratura contemporanea italiana. Prima cannibale, poi pulp, poi – a detta dello stesso Bonina – capostipite del genere nevroromanticismo, la Santacroce, nel maggio 2001, pubblica prima nella collana Strade Blu, poi nel maggio 2002 nella P.B. Mondadori, Lovers, (amanti).
Affermare che si tratti di una scansione narrativa per paragrafi, sarebbe non esatto, dal momento che vuoi per l’imprinting formalmente vicino alla poesia, vuoi per un peculiare ritmo vicino alla prosa poetica ( una scelta che la Santacroce adotterà per il suo ultimo lavoro “Dark Demonia”) riteniamo che l’esatta definizione dei 94 momenti in cui è divisa l’opera, sia di stanze. Vorremmo utilizzare, ci sembra più appropriato, il termine stanze non nell’accezione comune utilizzata nella metrica italiana di strofa come parte della canzone, ma come componimento autonomo.
Non perchè esista in Lovers una schizofrenia congenita nello sviluppare l’intreccio, non perchè si tratti di singoli episodi autoconclusivi, ma perchè l’autonomia di ogni singola parte di quest’opera viene a trovarsi nelle condizioni di esprimere un dolore intenso, rinnovato e rinnovabile per ogni singolo momento, tanto da amplificarne la potenza simbolica pagina dopo pagina, episodio dopo episodio. Per fare un esempio: “Diventarono indivisibili vite. Dal niente al tutto con un battito d’ali. Nemmeno un istante da respirare lontane. Sincronizzando il pulsare del cuore “(pag.15). E troviamo senza dubbio, alquanto singolare, che dopo due scelte formali di questo tipo (sia per Lovers che per Dark Demonia), la Santacroce non abbia tentato di raccontarsi in poesia.
Ovviamente che la poesia non entri nei modi espressivi della Santacroce, potrebbe risultare questione scontata, anche per sua stessa ammissione. Ma di certo se un giorno dovesse uscire una sua raccolta di versi, siamo certi che il risultato sarebbe più che positivo.
In Lovers lo spazio della narrazione si divide tra Roma e Positano, in un arco di tempo di una sola stagione. Elena e Virginia, le protagoniste, amiche per la pelle, saranno vittime inconsapevoli di quello strano e caotico gioco che si chiama Amore, gioco in cui il ruolo delle parti, la categoria del Ruolo stesso che ciascuno di noi può inconsapevolmente trovarsi ad interpretare, gioco crudele, gioco delle lacrime il più delle volte, diviene un’incredibile partita a scacchi da Settimo Sigillo.
Virginia si innamora del padre di Elena, la quale, tenuto a gran fatica il segreto, è a sua volta innamorata di Virginia. La storia, una delle tante da raccontare, magari come quelle che possono nascere nella più desolante provincia italiana, come in una qualsiasi capitale del mondo, si trova a essere costruita dalla Santacroce, al di là della scelta lessicale, del suo stile oramai inconfodibile, con un unico filo conduttore, il dolore, il dolore lancinante della scelta, del non sapere a chi affidare le proprie attenzioni, l’indecisione cronica nata dal turbinio adirezionale generato dai diversi detentori e gestori di potere relazionale (il padre di Elena ed Elena stessa), l’amarezza di sentirsi imbozzolata in storie di ordinaria follia quotidiana, asfittica nel 99% dei casi, dove anche un raggio di sole può tagliare come lama di un coltello, percependo sempre come appetito infinito la voglia di sentirsi amati, ed amare, e poi di nuovo voler fuggire via, da se stessi, da tutto, voler essere uomo e donna, o un ibrido, cambiare pelle come i serpenti sperando in un catartico perdono dei peccati: “Quando una nuova alba affilata le graffiò il viso si ricordò che il giorno prima aveva avuto voglia di morire. Era durato un istante. Palpebre che si abbassano per ritornare alla luce. Frazioni di secondo più profonde di un taglio. Elena le aveva raccontato di un furioso litigio. Genitori arrivati alle mani. eppure Virginia della madre conosceva solo il sorriso. Credeva non sapesse far altro quella donna all’apparenza serena. Credeva realmente che il padre di cui parlava non fosse più suo. Lei ne piangeva. Diceva ci sarà un’altra vita. Diceva tu ci sarai. Devi rimanere. Magari vivremo insieme. Nella stessa casa. Elena troppo sincera. Insopportabile. Durò un istante. Una porta che sbatte e non si riapre. Stesso rumore. Desiderò morire” (pag. 50).
Che la Santacroce abbia diversi lati oscuri, o meglio che viva nell’ombra come creatura blasfema e demoniaca (è questo che fa più cool una scrittrice del suo calibro?), sembra in qualche modo aver indotto a travisare l’intero meccanismo della sua produzione.
Al di là delle definizioni, o del voler ad ogni costo controllare in maniera ospedalizzante anche le diverse modalità della narrativa o della poesia, basterebbe non lasciarsi ingannare dall’alone pop che ruota intorno a Lei. E se poi si scoprisse che anche lei soggiace al ruolo ambiguo dell’opera d’arte nell’era della riproducibilità tecnica?
Potrebbe essere assolutamente inattendibile chi definisce questa autrice come una nichilista passiva che distrugge per distruggere, o che vuole rimanere negli annali dei profeti letterari dello shock per lo shock? E se il suo fosse un eterno sì alla vita?
Leggete Lovers, e ne riparleremo!