Intervista ad Antonio Tosini.

MV – Un amico ci chiese tempo fa notizie relative alla “falcata celtiberica”. Puoi segnalarci di che si tratta?
AT – E’ un’arma bianca con un’impugnatura inusuale ed una lama particolare. Alcuni sostengono che si sia diffusa in Spagna attraverso l’Italia, molto probabilmente con l’espansione dell’esercito romano, proveniente dai paesi balcanici.
Accrediterei maggiormente l’ipotesi di un’origine prettamente e meramente asiatica.
MV – Perché è particolare la lama?
AT – La forma della lama presenta un’angolazione al dorso che spinge in avanti la parte terminale della lama permettendo la massima efficacia del colpo portato di taglio. E’ una forma che si ritrovava fino a qualche secolo fa in alcune tipologie di “yatagan” diffusi dalla Turchia al Medio Oriente, così come in alcune lame di spade indo-musulmane con il tipico andamento del filo a curva e controcurva (concavo-convesso) fino a giungere nell’isola di Bali, dove si riscontra una simile tipologia in alcuni pugnali cerimoniali, con impugnatura a forma di testa di “Garuda” e nelle spade “Atjeh” a lama larga, di Sumatra.
MV – Puoi specificare quest’azione della lama?
AT – L’accentuata angolatura del dorso permetteva di trasmettere una notevole energia al colpo con il minimo movimento del polso (massima resa con minimo sforzo) rendendola così arma di grande impatto ed effetto, la stessa forma ed efficacia che si ritrova nei “kukhri” nepalesi.
MV – Al “kukhri” si legano significati specifici?
AT – E’ l’arma nazionale del Nepal, arma degli indiani Newari ed, ancora oggi,è in dotazione ai reparti Gurkha, questi discendenti, però, da un ceppo mongolo ed è anche arma caricata di significati simbolici, filosofici e liturgici, come lo doveva essere all’epoca per la falcata.
MV – L’impugnatura della falcata celtiberica riserva singolarità?
AT – L’impugnatura, molto particolare, con il codolo che si prolunga e risale a difendere le dita della mano che la impugna in una sorta di “guardia”, la si ritrovava fino ai primi anni del Novecento in alcuni coltelli sardi, di chiara derivazione spagnola; al riguardo, c’è un interessante articolo su “Diana Armi”, in un numero del 2005.
Dicevo dell’impugnatura, che in genere ha un terminale figurato, quasi sempre a forma di testa di cavallo, anche questo di significato simbolico, più o meno come la testa del “Garuda” del pugnale di Bali o dei coltelli da parata delle Isole della Piccola Sonda terminanti a “testa di elefante” (Ganesh), caratteristiche, insomma, dell’arte indo-giavanese.
In età moderna si sono conservate alcune tipologie europee come la “Giusarma” e la “Beidana” utilizzata, quest’ultima, fino al XVIII secolo da truppe valdesi, dove, però, l’impugnatura “a gancio” era sfruttata, in caso di non uso, come possibile utilità per rastrelliere o altro.
In conclusione, resto convinto che la falcata celtiberica sia stata ottenuta da una trasformazione con apporto di migliorie su una tipologia d’arma giunta in Europa dal lontano Oriente.
Intervista a cura di
Maurizio Vitiello