Da ragazzo trascorsi un anno in una famiglia americana. Un giorno trovai in un videonoleggio una copia di C’era una volta in America, il mio film preferito. Subito, con grande fierezza, lo feci vedere a tutta la famiglia. Nemmeno a metà della visione, il padre si alzò indignato e sbalordito: non si spiegava come io potessi esser fiero di mostrare quell’epopea sanguinaria dei miei connazionali mafiosi. La forza ottusa degli stereotipi e l’indignazione gli impedirono di accorgersi che i gangster del film sono ebrei originari dell’Est Europa non italoamericani, e che l’epopea criminale racconta la storia degli Stati Uniti d’America non dell’Italia. L’unica cosa italiana in quel capolavoro è, infatti, l’arte di Sergio Leone e dei tanti che lavorarono con lui. Ciò che quel film testimonia nel mondo è che siamo un Paese capace di grande arte, oltre che di grandi crimini.
La medesima situazione si ripropone ora con il successo a Cannes degli splendidi film di Matteo Garrone sul dramma di Napoli e di Paolo Sorrentino sul fondo oscuro della politica italiana. Non è mancato chi ha riproposto l’adagio cinico dei «panni sporchi che si lavano in casa», chi ha accusato Roberto Saviano di speculare sul dramma della propria gente, chi ha imputato ai nostri artisti di contribuire a diffondere nel mondo un’immagine dell’Italia come Paese corrotto, Paese delle mafie, Paese dalla storia politica tragica. Quest’accusa la si è sempre mossa ai nostri migliori artisti, dal dopoguerra fino a oggi. A pronunciarla è sempre la stessa voce meschina, sempre intonata alle miserie d’Italia e mai alla nobiltà dell’Italia capace anche di strappare la grande arte alle proprie miserie. È vero che nel resto del mondo ci immaginano – e forse perfino ci vogliono – mafiosi, camorristi, immersi nella «munnezza», reale e simbolica, fino al collo; è vero che spesso guardano a noi con quel misto di attrazione e repulsione che suscita l’esotico, il primitivo, il barbarico; è anche vero che è molto più facile interessare il resto d’Europa con un film o un libro sul Sud della mafia o della camorra, sulla Sardegna degli arcaismi barbaricini, che non sul Nord del capitalismo molecolare e della fabbrica diffusa; è vero che per l’Europa che si appassiona al nostro Paese l’Italia è Napoli, come è vero che l’affascina meno Milano perché Milano è già Europa. Ma è anche vero che Napoli è l’Italia, che l’Italia è un Paese corrotto, un Paese delle mafie, un Paese dalla storia politica tragica.
Siamo anche tutti pronti a riconoscere che troppo a lungo un certo Meridione d’Italia si è crogiolato nel piagnisteo sugli «eterni, inguaribili mali del nostro tragico Sud», e che pletore di intellettuali, artisti e scrittori hanno sguazzato in questa retorica. Ma la chiave per discernere tra un modo complice e un modo vindice di raccontare i mali del Sud d’Italia sta proprio in questa parola: tragedia. La tragedia non è mai nelle cose. È solo nell’occhio di chi le guarda. Ma attenzione: la tragedia non è il male. Al contrario, la tragedia è la più alta forma di resistenza umana al male. La forma tragica è quel tipo di sguardo artistico sul mondo che non si rassegna al mondo, che si oppone al suo dolore, che lotta contro la sua malvagità. Un bosco di lecci incenerito da un incendio, uno sciame di mosche falcidiato da un’improvvisa gelata non sono tragici. C’è tragedia soltanto dove c’è l’umano che lotta contro il destino avverso. E proprio questo fa la grande arte tragica: lotta. Fa attrito, fa resistenza, fa dello sterco concime per la semina dei campi. L’arte tragica di cineasti come Garrone e Sorrentino oppone alle brutture d’Italia la propria bellezza. Loro non sono parte del problema, sono già una risposta a esso. È anche grazie a loro che l’Italia non sarà solo camorra o oscura politica.
La distanza tra le loro opere cinematografiche e la materia brutale che portano sullo schermo è la stessa che separa la lamentela dalla lamentazione. La lamentela è un inveterato vizio italiano. In essa risuona quell’inerte piagnucolio che ha da tempo rinunciato a ogni responsabilità e a ogni reazione. La lamentela si limita a pietire un piccolo risarcimento per sé. Al suo opposto, nella lamentazione tragica, l’umanità afflitta risponde al male che è nelle cose innalzando un magnifico canto di comprensione, conforto e protesta. Un canto, al tempo stesso, di consolazione e di lotta. Quest’antico canto ci ricorda che l’enorme capacità umana di produrre il male trova un analogo solo nell’enorme capacità umana di creare l’arte dal male.
fonte:lastampa.it
Michele De Lucia