Napoli
La scomparsa di alcuni bambini rom a Napoli non è esattamente da attribuire a casi di desaparecidos, come annunciato lunedì dall’europarlamentare ungherese rom Viktoria Mohacsi. La situazione è ben diversa, forse ancora più difficile. L’esponente della plenaria di Strasburgo che in visita in Italia ha denunciato «le gravissime violazioni di diritti umani» nelle baraccopoli di Roma e Napoli, non ha potuto però comprendere in pieno la tragica vicenda di quasi un centinaio di bambini rom, e forse più, a causa di un problema di traduzione. Così almeno precisa l’associazione Opera Nomadi che, puntualizzando la questione, apre un capitolo, se vogliamo, ancora più drammatico. Sono decine e decine i bambini rom che vengono «prelevati» dal Tribunale dei minori di Napoli, dalle loro famiglie e nella maggior parte dei casi trascorrono mesi e mesi prima che possano rivederle. Non soltanto dodici come nel caso sollevato dalla Mohacsi.
Per alcuni come Mirko, uno dei papà rom sfuggito la settimana scorsa all’attacco incendiario nei campi di Ponticelli, possono trascorrere anche due anni. La figlia di Mirko, vittima di una violenza sessuale da parte di ragazzi napoletani chiede di vedere la famiglia, ma a distanza di due anni, l’incontro non è ancora avvenuto. Il papà Mirko non riesce a spiegarsi come il mancato controllo della ragazzina di dodici anni possa tramutarsi in fine della patria potestà. «In questo caso in particolare – spiega Cristian Valle, uno degli avvocati che collabora con Opera Nomadi – il papà si è anche costituito parte civile nel processo per stupro, ma per ora non ha ancora potuto vedere la bambina». Mirko non sa neanche dove si trovi la sua piccola. «Ogni volta che ci incontra – spiegano gli operatori di Opera Nomadi – chiede come sia possibile tutto questo».
E veniamo a cosa dice la legge. La procedura è abbastanza complessa e riguarda l’intervento della pubblica autorità a favore dei minori, prevista dall’articolo 403 del codice civile, in caso in cui il minore sia stato trovato abbandonato o «allevato in locali insalubri e pericolosi». In seguito all’intervento del tribunale, i genitori possono rivendicare la patria potestà e, intanto che le autorità giudiziarie verificano la possibilità o meno dei genitori di provvedere al figlio assistito nel frattempo dai servizi sociali, la famiglia può avere incontri periodici con il bambino. Qui sorge il primo problema. «Le case famiglia spesso non si assumono la responsabilità di organizzare gli incontri perché non si sentono in grado di gestirli – spiegano ancora da Opera Nomadi – gli assistenti sociali dicono che le figure competenti sono i pm, ma i pubblici ministeri, naturalmente, ricordano che a farlo devono essere gli assistenti sociali. E quindi l’incontro viene rimandato per mesi». I figli del vento, che dalla burocrazia vogliono sfuggire, rimangono imbrigliati nelle maglie di una procedura complicata.
E negli ultimi tempi la situazione è anche peggiorata perché le condizioni di indigenza e elemosina che caratterizzano la vita dei campi vengono scambiate con sempre più facilità per induzione all’accattonaggio. Si moltiplicano quindi i processi nei confronti di genitori rom che, spesso, hanno come unica colpa quella di non avere una casa e un lavoro. E dire che se un rom vuole iscrivere suo figlio a scuola non riesce mai a farlo. «Quasi sempre a Napoli ci siamo trovati di fronte a scuole che dicono di non avere posti – raccontano da Opera Nomadi – ancora peggio se il genitore vuole trovare un lavoro: non viene considerato». Prima ancora del lungo iter di integrazione per il quale, ha ricordato sempre la Mohacsi «l’Italia non ha chiesto neanche i soldi previsti dalla Ue», i bambini vengono affidati ad altre famiglie. In caso di risposta negativa da parte del Tribunale, alcuni vengono adottati direttamente da famiglie italiane. In altri casi ancora i genitori non sono in grado di reclamare la potestà genitoriale per problemi linguistici e incapacità di richiedere assistenza da parte degli avvocati.
La scomparsa di alcuni bambini rom a Napoli non è esattamente da attribuire a casi di desaparecidos, come annunciato lunedì dall’europarlamentare ungherese rom Viktoria Mohacsi. La situazione è ben diversa, forse ancora più difficile. L’esponente della plenaria di Strasburgo che in visita in Italia ha denunciato «le gravissime violazioni di diritti umani» nelle baraccopoli di Roma e Napoli, non ha potuto però comprendere in pieno la tragica vicenda di quasi un centinaio di bambini rom, e forse più, a causa di un problema di traduzione. Così almeno precisa l’associazione Opera Nomadi che, puntualizzando la questione, apre un capitolo, se vogliamo, ancora più drammatico. Sono decine e decine i bambini rom che vengono «prelevati» dal Tribunale dei minori di Napoli, dalle loro famiglie e nella maggior parte dei casi trascorrono mesi e mesi prima che possano rivederle. Non soltanto dodici come nel caso sollevato dalla Mohacsi.
Per alcuni come Mirko, uno dei papà rom sfuggito la settimana scorsa all’attacco incendiario nei campi di Ponticelli, possono trascorrere anche due anni. La figlia di Mirko, vittima di una violenza sessuale da parte di ragazzi napoletani chiede di vedere la famiglia, ma a distanza di due anni, l’incontro non è ancora avvenuto. Il papà Mirko non riesce a spiegarsi come il mancato controllo della ragazzina di dodici anni possa tramutarsi in fine della patria potestà. «In questo caso in particolare – spiega Cristian Valle, uno degli avvocati che collabora con Opera Nomadi – il papà si è anche costituito parte civile nel processo per stupro, ma per ora non ha ancora potuto vedere la bambina». Mirko non sa neanche dove si trovi la sua piccola. «Ogni volta che ci incontra – spiegano gli operatori di Opera Nomadi – chiede come sia possibile tutto questo».
E veniamo a cosa dice la legge. La procedura è abbastanza complessa e riguarda l’intervento della pubblica autorità a favore dei minori, prevista dall’articolo 403 del codice civile, in caso in cui il minore sia stato trovato abbandonato o «allevato in locali insalubri e pericolosi». In seguito all’intervento del tribunale, i genitori possono rivendicare la patria potestà e, intanto che le autorità giudiziarie verificano la possibilità o meno dei genitori di provvedere al figlio assistito nel frattempo dai servizi sociali, la famiglia può avere incontri periodici con il bambino. Qui sorge il primo problema. «Le case famiglia spesso non si assumono la responsabilità di organizzare gli incontri perché non si sentono in grado di gestirli – spiegano ancora da Opera Nomadi – gli assistenti sociali dicono che le figure competenti sono i pm, ma i pubblici ministeri, naturalmente, ricordano che a farlo devono essere gli assistenti sociali. E quindi l’incontro viene rimandato per mesi». I figli del vento, che dalla burocrazia vogliono sfuggire, rimangono imbrigliati nelle maglie di una procedura complicata.
E negli ultimi tempi la situazione è anche peggiorata perché le condizioni di indigenza e elemosina che caratterizzano la vita dei campi vengono scambiate con sempre più facilità per induzione all’accattonaggio. Si moltiplicano quindi i processi nei confronti di genitori rom che, spesso, hanno come unica colpa quella di non avere una casa e un lavoro. E dire che se un rom vuole iscrivere suo figlio a scuola non riesce mai a farlo. «Quasi sempre a Napoli ci siamo trovati di fronte a scuole che dicono di non avere posti – raccontano da Opera Nomadi – ancora peggio se il genitore vuole trovare un lavoro: non viene considerato». Prima ancora del lungo iter di integrazione per il quale, ha ricordato sempre la Mohacsi «l’Italia non ha chiesto neanche i soldi previsti dalla Ue», i bambini vengono affidati ad altre famiglie. In caso di risposta negativa da parte del Tribunale, alcuni vengono adottati direttamente da famiglie italiane. In altri casi ancora i genitori non sono in grado di reclamare la potestà genitoriale per problemi linguistici e incapacità di richiedere assistenza da parte degli avvocati.
fonte:ilmanifesto.it
Michele de Lucia