NAPOLI — Tra due settimane Gianmarco Lauro avrebbe compiuto 25 anni. Quando venne al mondo, il 13 luglio 1983, il suo bisnonno-patriarca — don Achille ‘o comandante, l’armatore che fu sindaco monarchico di Napoli, presidente- padrone del Napoli, editore, deputato e sciupafemmine — se n’era andato da otto mesi quasi esatti, a 95 anni passati. Molto prima se n’era andato invece suo nonno Gioacchino — che del padre era l’opposto e che dal padre fu fatto interdire — ucciso a 50 anni dal cancro, primo segnale di come il destino avrebbe reso tragica la storia di una dinastia che s’illuse di poter avere tutto: denaro, potere, successo, consenso, e che per un periodo ebbe tutto davvero, ma poi lo vide svanire in un crollo che fu finanziario, ma trascinò con sé un intero capitolo della storia recente di Napoli, quello più pieno di pagine da raccontare. Per Gianmarco, Achille Lauro era soprattutto suo padre, il nipote del comandante che ne ereditò il nome e poco altro. Quando una decina d’anni fa Achille jr. finì nei guai per una storia di truffe assicurative, già non faceva quasi più notizia che un Lauro avesse problemi giudiziari. Altri erano stati quelli che avevano coinvolto gli eredi del capostipite: il figlio Ercole, la sorella Laura, alcuni nipoti e uomini di fiducia. E soprattutto già da tempo si era consumato il grande epilogo dei Lauro, il crac della flotta che agli inizi degli anni Ottanta fece ritrovare all’improvviso senza reddito le duemila famiglie dei dipendenti, e che dannò gli ultimi scampoli di vita del comandante, uomo del quale si è detto tutto il bene e tutto il male possibili, ma che di certo fu capace di mettere in piedi un impero, e che da quell’impero partì per costruirsi un potere che spaziò dalla politica, al calcio, all’editoria. In fondo un antesignano, visto quello che è successo in Italia circa 50 anni più tardi. Achille Lauro ebbe il tempo di vedere le sue ricchezze trasformarsi in debiti, di vedersi sbattere in faccia le porte delle banche. Nel 1955 un suo assegno di 300 mila lire che aveva dimenticato di firmare fu pagato senza battere ciglio al gioielliere che gli aveva venduto un prezioso orologio, nell’ultimo Natale di vita, invece gli fu negato un prestito di cento milioni con i quali avrebbe voluto mantenere l’abitudine della beneficenza, fatta di pacchi di pasta, zucchero, caffè e scarpe che, si racconta, in periodo elettorale regalava in due tempi: la destra prima del voto e la sinistra a elezione avvenuta. Altre tragedie aveva già vissuto il vecchio Achille. E sicuramente la più grande fu la morte di Gioacchino, che lui però non volle mai più rivedere — durante gli anni della malattia — dopo averlo rinnegato per le sue operazioni finanziarie sballate. Finché agì sotto il controllo del padre (col quale era talmente in soggezione da non fumare in sua presenza l’amato sigaro cubano), Gioacchino fu un buon armatore, un buon avvocato, un buon presidente del Napoli. Quando provò a muoversi da solo fu un disastro. E Achille non glielo perdonò mai: per tornare da lui aspettò che fosse steso nella bara Michele de lucia |