SALERNO – Provando a immaginare come il cronista Nicola Fruscione avrebbe iniziato il suo «coccodrillo» non riusciamo a distaccarci dall’omaggio che gli rese un altro giornalista salernitano che, al pari di lui, è riuscito a scalare il successo, Aldo Falivena: «Rispetto ai cronisti dei giornali concorrenti Nicola aveva un vantaggio enorme: sapeva che i lettori avrebbero creduto a lui, non agli altri». Perché era riuscito a conquistare la loro fiducia, senza mai tradire la verità. Requisito che distingue il giornalista che «sente» a livello istintivo la notizia da quelli che arrancano rincorrendo fonti e certezze di cui sono privi. Nicola Fruscione è iscritto di diritto alla prima categoria e per circa mezzo secolo ha onorato il «mestiere» sia che si occupasse di cronaca bruta sia che scrivesse di politica, di musica, di arte. E di cinema, la passione che più ha coltivato. Il suo debutto giornalistico avvenne in coincidenza con l’alluvione terrificante che sconvolse Salerno e Vietri nel 1954: don Gaetano Afeltra, amalfitano con Salerno e Napoli nel cuore, lesse la corrispondenza, annotò il nome del giovane cronista e qualche anno dopo lo chiamò al «Giorno» che all’avvio degli anni Sessanta conosceva la sua stagione migliore. Grazie alle inchieste di Giorgio Bocca sulla provincia lombarda che poneva le fondamenta del miracolo economico e di Giampaolo Pansa, ma anche alla godibilissima intervista di Fruscione a Renato Vallanzasca, il «bel Renè» che faceva fuori le sue vittime sfoggiando sorrisi da divo di celluloide. Era difficile arrivare al bandito specialista in evasioni e, quindi, sorvegliatissimo dalle forze dell’ordine, ma Fruscione aveva promesso l’intervista ad Afeltra e riuscì a portarla a casa. Perché i giornalisti di razza inseguono la preda e si placano solo quando l’hanno azzannata. Questo per abbracciare con una unica immagine il senso pieno di una vita da cronista intensamente vissuta in trincea, cioè sul «fatto».
Nicola Fruscione non ha mai derogato dalle regole severe apprese dallo zio Ugo, giornalista affermato, ma nessuno creda che stiamo parlando di un missionario tutto casa lavoro e impegno: «Coltivo tutti i vizi leciti», disse un giorno mangiando sulle tavole della Canottieri, il circolo nautico che ha presieduto e dove la morte lo ha ghermito in maniera dolce esaudendo un suo sogno, perché «la vita va bevuta a lunghissimi sorsi». La sorgente alla quale maggiormente ha attinto è stata Salerno ed ora che Nicola non c’è più ci viene da dire che difficilmente ci sarà un altro che come lui riuscirà ad essere il personaggio simbolo della città. Solo guardando indietro si trova un altro «campione» della salernitanità a tutto tondo: Alfonso Menna, il sindaco della prima ricostruzione. Che, però, si impose esibendo — perché era giusto farlo — la faccia truce del leader assolutamente indisponibile alla transazione e meno che mai al compromesso. Fruscione, invece, la sua leadership l’ha costruita facendo le «vasche» su e giù lungo via Mercanti o lungo il Corso. A chi scrive è capitato di passeggiare con lui e possiamo garantire che è stato arduo arrivare all’altro capo della strada, ogni metro una fermata, una battuta, un apprezzamento.
Soprattutto quando ha combattuto le ultime due battaglie civili per la ricostruzione del Centro storico e per l’istituzione di una soprintendenza salernitana ai beni artistici, architettonici e ambientali. Le vince entrambe e non in odio a Napoli che ha amato «quasi» quanto Salerno. Anche se l’amore smisurato per la sua città lo costringeva a una parzialità istintiva e assolutamente impossibile da controllare: «Dalla terrazza della Canottieri Irno vedo il lunato Golfo, a voi napoletani questo non è consentito». Esagerava sapendo di farlo, nessuno ha mai osato contraddirlo. La citazione di Alfonso Gatto introduce l’altro capitolo dell’impegno culturale di Nicola Fruscione: è stato molto amico del grandissimo poeta, suo inseparabile compagno di viaggio nelle notti meneghine segnate dalla nebbia che rendeva più acuta la saudade. Anche per questo colse al volo l’invito di Roberto Ciuni e nel ’79 ritornò al «Mattino» da dove era andato via per rispondere al richiamo di Gaetano Afeltra.
Con Gatto collaborò alla galleria «l’Incontro» e successivamente al «Catalogo», anche se il luogo che più ha frequentato è stata la libreria Macchiaroli dove spesso incontrava Gaetano, il fondatore, che dette respiro e spessore culturale alla ricostruzione dei moti agrari — «Il sangue dei contadini» — e alla denuncia della corruzione politica e economica. A noi, concludendo questo affrettato ricordo, piace, però, ricordare Nicola Fruscione con l’ultima «fatica» di una carriera esemplare: i suoi «pezzi» per l’edizione salernitana del «Corriere del Mezzogiorno ». La sua rubrica «Qui Salerno » era attesa dai lettori e temutissima dalla città ufficiale: chi sarà chiamato a continuarla avrà un compito invero arduo.