NAPOLI — Mancano venti minuti alla sentenza, e i giurati con la fascia tricolore entrano per salutarlo. Appena usciti dalla camera di Consiglio, si mettono in coda, come davanti a una biglietteria. La saletta appena dietro l’aula bunker è minuscola, ha grate di cemento armato alle pareti, sparsi per terra ci sono una trentina di cartoni per toner da fotocopiatrice.
La toilette è a vista, senza porta. Prima dei giudici popolari si era affacciato Beppe Lumìa, ex presidente della Commissione antimafia. «Ti prometto che farò di tutto per mantenere alta l’attenzione» è il suo congedo. Poi tocca a Federico Cafiero de Raho, uno dei magistrati che hanno lavorato di più a Spartacus. «È tutto merito tuo» gli dice, e Roberto Saviano, assiso su un cartone, ha il pudore di schermirsi. «Ma che dici, è solo lavoro vostro, una vittoria dello Stato, io non c’entro nulla». Una verità e una bugia, nella stessa frase. I settanta giornalisti che affollano l’aula Ticino del carcere di Poggioreale, principali testate nazionali, diretta televisiva, inviati da Francia, Inghilterra e Spagna, sono solo farina del suo sacco. Questo è il «suo» processo, è la versione giudiziaria di Gomorra, almeno così viene vissuta.
No Saviano, no Casalesi, così è se vi pare. Anche per questo, la sua presenza, qui, oggi, può segnare un punto a favore di chi lo accusa di un protagonismo tale da oscurare anche gli orrori dei boss di Casal di Principe. «Non credo che sia così. Ci tengo a fare questa cosa, per la mia vita. Per dimostrare che posso fare il mio lavoro senza avere paura». Il nero della sua maglietta contrasta con la faccia diafana e scavata. Non ci ha dormito sopra e si vede. È arrivato qui dentro con anticipo fantozziano, dalle 8 del mattino è chiuso in questo bugigattolo, mentre nell’aula, piena di giornalisti e avvocati, solo due imputati, nessun boss in video, l’unica domanda riguarda lui. Arriva? Si farà vedere? «Ho pensato che ci sarei andato comunque, anche senza questo clamore. E allora perché non farlo?». Tormenta un brufolo che gli deturpa il tatuaggio Maori sul bicipite destro, fa scrocchiare di continuo le dita, si siede e si alza, sembra un incrocio tra un’anima in pena e un pugile prima del match. «Finora ho vissuto come un topo, adesso basta. Dici che sbaglio? Non lo so, di errori ne faccio continuamente. Ma loro, i Casalesi, sono la mia ossessione solitaria, sento che dovevo esserci».
Quando il magistrato Franco Roberti gli fa un cenno per dire che è ora, la corte sta entrando in aula, si alza di scatto. «Eccolo», flash, taccuini, tutti intorno a lui, Saviano che divora il «suo» processo e poi sparisce. Riappare qualche ora più tardi, sul lungomare di Mergellina, annunciato dalle sirene dei poliziotti in moto che chiedono strada, dagli uomini della scorta che scendono dale due auto blindate e annusano l’aria prima di dargli il permesso di scendere. I tg, intanto, parlano ancora di lui, della sua comparsata, che diventerà ulteriore manna per i teorici del «se l’è andata a cercare», la sua vita blindata. «Io, semplicemente, mi prendo la responsabilità di quel che ho raccontato. Gomorra non è un libro sui Casalesi, ma sul capitalismo visto attraverso la feritoia del loro potere». Sembra di essere seduti al tavolino con la Madonna pellegrina, guardata a vista da una manciata di agenti con la pistola in mano. Una donna gli chiede una foto, come se fosse il centravanti della nazionale.
Un signore in tuta gli presenta figlio, figlia, una infinità di nipoti: «Ce l’abbiamo fatta a condannarli, abbiamo vinto», gli dice. Roberto Saviano sa di essere diventato un simbolo, ma è conscio del fatto che molti pensano sia invece un prodotto, complice e vittima di una operazione commerciale da un milione e mezzo di copie che lo ha trasformato in un Salman Rushdie antimafia. «Lo sento, l’odio nei miei confronti. E a volte non me ne capacito. Io non ho fatto scalate di potere, non ho rubato spazio a nessuno. Mi ferisce quando, per denigrarmi, si usano i sacrifici che Giovanni Falcone sopportò in vita come termine di paragone. Lui faceva il magistrato. Io, che non sono certo un eroe come lui, non ero preparato a tutto questo ». La processione al tavolino non conosce sosta. Quando si alza, non c’è verso di pagare il conto. Le operazioni per uscire dal bar sono complesse, estenuanti. Lui aspetta e intanto rimugina su quel che gli ha detto in aula un vecchio collega che non vedeva da tempo. «Qui dentro — si riferiva alla sentenza appena letta — sei l’unico condannato all’ergastolo ad essere in libertà». Saviano ha tentato di sorridere, ma non ci è riuscito.
Michele De Lucia