Qui stavamo ancora ridendo». Isham fa partire il video, 26 secondi di felicità sul telefonino: ragazzi sul ponte, sdraiati sopra il gabbiotto del timone, i delfini velocissimi… «Eravamo noi lenti. Pesanti: in 380 su un coso che poteva portarne sì e no la metà». L’audio è una canzone in arabo: «Italia, Italia, Italià, mi sentirò bene solo quando sarò all’Italià…». Non ci sono mai arrivati «all’Italià». Dopo 9 ore di navigazione lo scafo (15 metri) comincia a imbarcare acqua a poppa. Lampedusa è a 15 ore. Il legno marcio del peschereccio acquistato dai trafficanti libici in Tunisia, il peso, un’ondata maligna, una falla nella stiva. «Abbiamo fatto salire le donne e i bambini — racconta Abdallah —. C’era una pompa, ma non funzionava. Abbiamo cominciato a tirar su l’acqua con le taniche del carburante». Catena umana. C’è chi ricorda «una nigeriana che stringeva una bibbia in mano».
Erano le 14 di un giorno di quasi primavera quando un ragazzo ha sentito il timoniere egiziano: «Non ce la faremo». L’odissea dei 380 clandestini sarebbe finita in tragedia 8 ore dopo, al buio, a poche centinaia di metri dalla costa dove era cominciata: Libia, Zawia, fuori Tripoli. Isham mostra una foto: suo cugino Wisam aveva 18 anni, è sepolto oltre la fabbrica dei fosfati che adesso non assume più, l’unica di questo impasto di case e deserto chiamato Metlaoui, 400 chilometri a sud di Tunisi.
La notte del 19 marzo 2008 Wisam Goma non è stato l’unico passeggero del barcone bianco e verde ad annegare nel Mare Nostrum. Difficile arrivare al numero esatto delle vittime. Difficile tutto, nella ricostruzione di una tragedia che ha visto 380 signori nessuno per ore alla deriva nel Mediterraneo. Questa è la storia di un naufragio fantasma, di una barca che ufficialmente non è mai partita dalla Libia così come non è mai partita un’inchiesta giudiziaria. I nomi dei testimoni sono stati cambiati. Fonti della polizia di frontiera confermano al Corriere 17 salme tunisine. Ricordando le liste fatte circolare nelle prigioni libiche, diversi sopravvissuti parlano di una quarantina di vittime. Sul peschereccio erano stipati nordafricani, egiziani, ma anche senegalesi, nigeriani e somali in fuga dalla guerra civile. Metà tunisini, e di questi 54 sono partiti da qui, Metlaoui.
Dalla città grigia dei fosfati viene un ragazzo che ha avuto più fortuna. Stessa tratta, qualche giorno dopo. Da un mese fa il bracciante in Sicilia. È contento. Dalla sua voce è arrivato al Corriere il passaparola di questa storia: una telefonata a casa, le prime notizie sul naufragio, l’arresto dei sopravvissuti, la violenza, le ingiurie, il lento ritorno, l’attesa di una nuova partenza. Zizou è tornato a Metlaoui una settimana fa. Due mesi in prigione l’hanno segnato. «Quando è arrivato non l’ho riconosciuto» dice il padre. Disoccupato, come tanti. Per pagare i 5.000 euro del passaggio per i due figli ha venduto la casa. I ragazzi si sono salvati, il resto no. Adesso sono in affitto, pochi mobili. Zizou ha ricominciato a lavorare: trasporta sabbia dal deserto per tre dinari al giorno (meno di due euro). Nessuno sa che la legge in Italia (e in Europa) sta cambiando. Il reato di clandestinità, reclusione fino a 18 mesi… «Meglio una galera in Italia che il nulla qui» sbotta il padre. Zizou annuisce. I compagni di naufragio sono d’accordo. Ali, 30 anni, vende angurie. Ha vissuto cinque anni a Padova, 2 in galera per spaccio. Rispedito in Tunisia nel 2007. Dice che l’ha denunciato «la moglie napoletana». «Ha detto alla polizia che non vivevamo insieme». Perché? «Non le passavo più 500 euro al mese». Un matrimonio d’interesse: «Vai a Napoli, paghi 6.000 euro e ti sposi in Comune. C’è un mediatore. Un tunisino. Arrivo alla stazione. Lui arriva con una cinquantenne sul motorino. “Tua moglie”, mi fa in arabo. “Così anziana?”, dico io. E lui: “Devi forse andarci a letto?”. Il giorno dopo a un mio amico è andata peggio: un’ottantenne in sedia a rotelle». E in Comune? «Tutto combinato». Perché non a Padova? «Lì non ti sposano neanche per 50 mila euro. Razzisti!».
Ride, Ali. Ma quando parla dell’ultimo viaggio la faccia diventa dura. «Volevano farci morire». Con l’acqua nella stiva, l’egiziano al timone chiama il boss libico. «Quel bastardo dice che viene un peschereccio ad aiutarci. Dopo 4 ore ancora niente. Alla fine appare un gommone con una pompa. Neanche quella funziona». Secondo un sopravvissuto poi giunto in Italia, Mohammed, i libici sul gommone (4 armati) avevano l’ordine di affondare la barca. Ma si sono impietositi quando qualcuno a bordo ha alzato i bambini in aria. Il barcone che affonda arranca verso la costa. Arriva a un vecchio porto. Il sollievo delle luci, la paura della polizia. Questa è la Libia di Gheddafi. Il peschereccio è fermo a poche centinaia di metri da riva. C’è chi grida «affondiamo», chi sente degli spari. Si buttano. È il caos. Una nigeriana incinta è la prima ad annegare. A riva gli agenti accolgono i superstiti con i manganelli elettrici. I naufraghi passano settimane in quattro prigioni. Le famiglie pagano gli avvocati che pagano chi di dovere. «Gli agenti pisciavano nel pozzo dell’acqua». Nuovi arrivi: «Un giorno sono arrivate 26 nigeriane. Quelle con i soldi sono uscite, le altre le violentavano gli agenti, una era incinta ». Zizou racconta di alcuni somali che stanno là da anni senza processo. Il traffico parte dalla Libia. Meno dalla Tunisia, che ha inasprito le pene per gli scafisti. Si attraversa il confine con i passatori. Di là qualcuno ti porta in un centro di raccolta, una casa abbandonata. Isham giura di essere arrivato su un camion militare libico. «È un business dove mangiano in tanti». La Libia è uno Stato di polizia efficiente, difficile agire senza coperture. I migranti restano chiusi giorni prima di essere condotti alla spiaggia. Da lì in gommone fino al peschereccio. «Italia, Italia, Italià, mi sentirò bene solo quando sarò all’Italià…».
Michele De Lucia