LOS ANGELES —«Sono cresciuto prendendo come modello le archistar del mio tempo: si chiamavano Le Corbusier, Alvar Aalto, Frank Lloyd Wright. Quello che sono oggi, lo devo anche a loro. Se possono spingere un giovane architetto a migliorarsi, ad essere sé stesso, ben vengano le archistar».
Poi precisa: «Naturalmente, quando parlo di archistar, non parlo certo di me». L’incontro con Frank O. Gehry, probabilmente l’architetto più conosciuto del mondo (tanto da finire persino tra i Simpson) nonché freschissimo vincitore del Leone alla carriera della prossima Biennale di Venezia, comincia con una difesa a sorpresa di una categoria, quella appunto delle archistar, sempre più spesso nel mirino per atteggiamenti, costi, progetti: «Se oggi si parla così tanto di architettura — dice — è merito anche loro». Gehry, divo malgré lui, è un ometto piccolo, vestito molto semplicemente in maglietta e pantaloni blu da lavoro. Ha i capelli bianchi, porta occhiali da vista leggerissimi che però nascondono uno sguardo chiaro che ti attraversa come un laser. Nato a Toronto (Canada) il 28 febbraio 1929 da una famiglia di origini ebraiche, si chiama in realtà Ephraim Owen Goldberg, poi trasformato Frank Owen Gehry nel 1954 dopo la nascita della prima dei suoi quattro figli avuti da due mogli («per evitarle la vita dura che io avevo provato » ha più volte detto).
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Michele de Lucia