Milano. Un battito d´ali.

Come per Cesare Pavese, anche per Antonio Sormani le cose “si scoprono attraverso i ricordi che se ne hanno. Ricordare una cosa significa vederla – ora soltanto – per la prima volta”. La memoria, quella che nei canti alla luna Leopardi descrive come “il rimembrar delle cose passate”, è infatti una componente fondamentale della pittura di Sormani perché è lì che ha sede l’inesauribile fonte della sua ispirazione, non nello sguardo. Non a caso, Paesaggio a memoria è anche il titolo di una delle tele scelte per la mostra: un semplice quadrato di colore, dove però l’olio più che dipinto pare alitato e dove la luce (che con il colore ha sempre un ruolo comprimario) non arriva dalle terse alture andine ma piuttosto dall’antico e misterioso spirito degli Incas, come dire dal pensiero più che dalla natura, da dentro più che da fuori. Così, a destra aleggiano soffici vapori azzurri, rosa e viola, mentre a sinistra si raddensa una fitta nuvola di sabbia e le due parti non si fondono, anzi, rimangono ben divise sulla verticale centrale del quadro. Inoltre, a sinistra, sotto il dorato colore del deserto, in alcuni punti s’intravede anche il disegno del fregio (dai forti toni amaranto) di una manta: il tipico tessuto locale, che gli indio usano per tutto, da marsupio a sacca per la spesa, da tovaglia a coperta. Una nota di folklore ma anche un gioco compositivo, a sostegno dell’iconica geometria dell’insieme. Jean Jacques Rousseau, nelle sue Confessioni, diceva di vedere bene solo nei ricordi, allo stesso modo possiamo forse dire che Sormani dipinge bene proprio nel loro affrancamento. Come dimostrano le tele e le carte qui raccolte: pagine di un diario che l’artista non ha scritto durante il suo lungo viaggio in Peru’, ma all’indomani del suo rientro (Gauguin aveva fatto lo stesso con il suo Noa Noa), per documentare le emozioni più che i luoghi, le sensazioni più che la cronaca, i rimpianti più che le certezze. Insomma, Sormani non ha dipinto il Perù, ma ha fatto in modo che lo spirito di quel lontano paese gli entrasse dentro per uscirne poi sotto forma di suggestioni, di evocazioni e di colori che, proprio per questo, non potevano più avere i profili del paesaggio originario, ma piuttosto gli sfuocati contorni di un sogno. Un sogno che Sormani ha però bisogno di contenere nello spazio di un quadrato, esattamente come in una fotografia, nella pagina di un album o una pala laica, che poi assembla, quattro alla volta, in un puzzle di impressioni cromatiche, topografiche ed emotive. Sono quadrati di morandiana memoria: raffinati spazi dove misura, equilibrio e pensiero s’incontrano e creano atmosfere di assoluta spiritualità, superfici asciutte e polverose, come da affresco, in cui lo sguardo affonda e si perde, ma dove il lento vagare porta alla rassicurante essenzialità dell’origine.
Lorella Giudici