Altri sette omicidi per Minghella -Maurizio Minghella, 54 anni, vorrebbe uscire per un giorno dal carcere di Napoli.
Maurizio Minghella, 54 anni, vorrebbe uscire per un giorno dal carcere di Napoli. Ha firmato la domanda per ottenere un permesso. Dopo la condanna a tre ergastoli, dopo nove omicidi, dopo rapine e violenze carnali in serie, dopo un’evasione durata tre giorni che risale al 2003, vorrebbe tornare libero almeno per qualche ora. Permesso negato. Salvo sorprese, non gli sarà concesso mai.
Secondo gli investigatori lui è il serial killer più feroce della storia italiana. Non solo per quello che i processi hanno stabilito con condanne definitive, ma per quello che presto si potrebbe chiarire. La squadra mobile ha riaperto sette vecchi fascicoli, omicidi avvenuti nel Torinese. Se le sue responsabilità saranno provate, grazie a nuove tecniche, Minghella diventerà l’assassino seriale italiano di donne col maggior numero di vittime: sedici.
Nel 1978 massacra sei donne a Genova, è arrestato e condannato. Liberato, si trasferisce a Torino dove tra il 1996 e il 2001 ne uccide altre tre: Fatima ‘H Dido, marocchina; Tina Motoc, moldava; e Cosima Guido, 63 anni. Viene arrestato nel marzo 2001 dai detective del vicequestore Marco Basile. Smascherato da Dna, impronte e testimonianze. Condanna definitiva nel 2005. Sempre ergastolo. La squadra «cold case», coordinata dal capo, Sergio Molino (pm Sandro Ausiello), ha riaperto 7 fascicoli. Sette donne massacrate tra il ‘96 e il 2001. I nomi: Floreta Skupe, 23 anni; Nadia Shehu, albanese di 22; Carolina Gallone, 66; Loredana Maccario, 53; Heriona Sulejmani, 16, strangolata in un bosco; Atli «Elisa» Isaku, 22; Ebe Romano, 35, uccisa sul greto di un torrente. Il pm nel 2004 fu costretto a chiedere l’archiviazione. Indizi «insufficienti».
Il caso di Nadia Shehu è tra i più emblematici. L’avevano trovata all’alba del primo agosto ‘97. Stesa fra stracci, rifiuti e bottiglie rotte, sul pavimento di un’ex concessionaria Alfa Romeo, rifugio di disperati e tossicodipendenti. Dentro il capannone abbandonato in via Botticelli, Nada Sheu aveva gridato senza potere essere sentita. Si era difesa con tutte le sue forze: la minigonna rosa era alzata, il top rosso strappato le lasciava scoperto un seno. Strangolata con la tracolla della sua borsetta. Quasi una firma.
Ma le tracce genetiche rilevate sulla scena si erano rivelate troppo labili per tentare una comparazione. Anche le impronte digitali – seppur coincidenti in alcuni punti con quelle del serial killer – erano parziali. Quindi inutilizzabili.
L’annegato
Ora si riparte da qui. I rilievi del ‘97 possono essere riletti con nuove tecniche. L’idea è nata dopo il lavoro degli esperti della scientifica sul cadavere di un marocchino, annegato ai Murazzi il 15 luglio. Riaffiorato 12 giorni più tardi, il corpo era irriconoscibile. Anche le impronte digitali sembravano inutili: si era formato il cosiddetto guanto epidermico, quando la pelle si stacca e si perdono tutte le linee papillari, ombre, creste e minuzie. Eppure fotografando quei poveri resti in digitale, attraverso un sistema di luce radente, i poliziotti erano riusciti a evidenziare i segni distintivi che rendono unica ogni persona.
Era solo il primo passaggio. Gli esperti hanno messo in risalto le minuzie attraverso ingrandimenti computerizzati, poi hanno inserito il file nella banca data Afis, il cervellone che contiene tutte le impronte digitali rilevate in Italia. Un motore di ricerca che verifica l’eventuale coincidenza fra l’ultimo dato inserito e gli altri. Così la scientifica di Torino era riuscita a risalire al nome del marocchino, così sta per analizzare le impronte lasciate dall’assassino di Nadia.
fonte:iltempo Michele De Lucia