NAPOLI — Il piano della Camorra per uccidere Roberto Saviano sarebbe entrato nella fase operativa. Deciso all’unanimità dalle famiglie che aderiscono al cartello dei Casalesi e addirittura fissato con una scadenza a breve termine: entro Natale i clan vogliono ammazzare l’autore di Gomorra e se necessario anche i carabinieri che gli fanno da scorta. Contano di farlo con un attentato spettacolare sull’autostrada Roma-Napoli durante uno dei frequenti spostamenti dello scrittore e degli uomini che lo proteggono. L’informativa giunta ai magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Napoli nasce da una confidenza del pentito Carmine Schiavone, cugino e omonimo del boss soprannominato Sandokan, il capo dei capi dei Casalesi, riconosciuto come tale anche ora che è detenuto e condannato all’ergastolo.
Schiavone ha cominciato a collaborare con i magistrati nel 1993 e al processo Spartacus, il più importante contro le cosche del Casertano, conclusosi in appello nello scorso giugno, la sua deposizione si è sviluppata per quarantanove udienze. Di quelle cosche conosceva ogni segreto, finché ne ha fatto parte. Ma anche oggi che vive con una identità nuova in una località dell’Italia centrale, continuerebbe ad avere contatti a Casal di Principe, il paese dal quale i clan hanno mutuato il nome, e di cui sono originari tutti gli Schiavone. E da uno di questi suoi contatti il collaboratore di giustizia avrebbe appreso del piano per eliminare Saviano. E ne ha parlato con un ufficiale di polizia. Da qui l’informativa alla Dda e l’innalzamento del livello di attenzione per proteggere l’incolumità dello scrittore. In Procura a Napoli i magistrati sottolineano che una informazione de relato ha bisogno di essere verificata da ulteriori accertamenti, ma ammettono anche che i rischi per Saviano sono consistenti da tempo, e quest’ultima novità non farebbe che confermare la fondatezza delle preoccupazioni che loro stessi hanno più volte espresso.
Una preoccupazione che cresce ulteriormente se si mettono in parallelo le confidenze di Schiavone con le prime deposizioni di Oreste Spagnuolo, uno dei killer dei sei africani ammazzati il 18 settembre scorso a Castelvolturno, che dopo l’arresto ha scelto di diventare collaboratore di giustizia. Spagnuolo ha parlato e sta parlando molto di Giuseppe Setola, il boss di quella frangia dei casalesi che avrebbe firmato non solo la strage di Castelvolturno ma anche numerosi altri omicidi negli ultimi mesi. Colpisce particolarmente un colloquio riferito dal pentito: «Ricordo che Setola ha parlato del fatto che cercava di procurarsi dell’esplosivo con un detonatore con telecomando; non mi ha spiegato cosa voleva farci ma diceva che era un modo facile per uccidere». Setola potrebbe aver trovato l’esplosivo che cercava, e ciò che non spiegò a Spagnuolo potrebbe essere proprio che aveva intenzione di usarlo per Saviano.
Tutto sarebbe in linea con la svolta stragista dei Casalesi iniziata proprio quando Setola — evaso dagli arresti domiciliari in una clinica — ha preso il controllo di un manipolo di uomini, tra i quali c’era anche Spagnuolo, e ha cominciato a regolare i conti con parenti di pentiti, imprenditori antiracket, con le comunità di immigrati che vivono in provincia di Caserta. Una svolta sanguinaria all’insegna delle azioni clamorose, in pieno stile corleonese dei primi Anni ’90. E a cosa somiglierebbe un attentato in autostrada se non alla strage del 23 maggio 1992 a Capaci, in cui morirono Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo, e gli agenti Vito Schifani, Rocco Di Cillo e Antonio Montinaro? I casalesi hanno da sempre un’impronta mafiosa che li rende diversi da tutti gli altri clan della camorra.
Non a caso in Campania soltanto loro hanno progettato di eliminare un magistrato, il pm Raffaele Cantone. Per Saviano la protezione dei carabinieri è iniziata due anni fa, e proprio ieri lo scrittore ne ha parlato intervenendo ai microfoni della trasmissione di Radiotre, Fahrenheit. «Sono stati due anni di vita duri», ha detto, aggiungendo che «all’inizio sembra che non ce la puoi fare, quando il tuo quotidiano viene stravolto e capisci che puoi solo peggiorare, perché vivi costantemente nel sospetto, nella mancanza di fiducia, nella solitudine, mentre le persone che ti sono attorno spariscono». Lo scrittore parla dei blitz recenti («Temo che gli ultimi arresti possano rendere gli uomini del clan più disperati») e di problemi anche molto pratici, in questi anni di vita blindata, come quando non riusciva a trovare casa a Napoli perché in nessun condominio volevano un vicino a rischio come lui. Ora racconta di aver scoperto la boxe, che lo diverte e lo rasserena: «Faccio molta palestra, ma sempre con quelli che chiamo i miei ragazzi, cioè i carabinieri (spesso più adulti di lui, ndr), che mi accompagnano giorno e notte e che qualche volta mi chiamano capitano».
fonte.larepubblica Michele De Lucia