Concorsi truccati: «Io raccomandata pentita, mi sono riscattata

19 novembre 2008 | 00:00
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Concorsi truccati: «Io raccomandata pentita, mi sono riscattata

MILANO – Dare spazio alle denunce oppure spiegare il meccanismo cioè come si fa a truccare un concorso nelle università italiane? Citare a caso qualcuna tra le centinaia di segnalazioni che ci sono arrivate da Milano, Roma, Avellino, Bari o scegliere solo alcuni casi emblematici? La storia che abbiamo raccontato venerdì, del concorso da ricercatore a Messina, «Un posto, un solo candidato: il figlio del professore», ha scatenato il web. Dalle centinaia e centinaia di e-mail ricevute è chiaro che si tratta di un fenomeno che colpisce tutti gli atenei italiani, da nord a sud. Molte di queste email contengono delle vere e proprie notizie di reato e innumerevoli casi di disonestà che scatta in maniera meccanica laddove la legge lascia margini di discrezionalità all’individuo. E quindi «taroccare» diventa quasi una prassi. Molti, impauriti da possibili ritorsioni, ci chiedono di non pubblicare i loro nomi ma fanno nomi, precisando anche i fatti e circostanziandoli. E sono tantissimi anche gli italiani, fuggiti all’estero, che ci hanno scritto. Quindi, dopo le opportune verifiche, organizzeremo meglio questo «urlo di denuncia» e magari lo faremo attraverso una pubblicazione. Ma adesso non troviamo di meglio che pubblicare un’autodenuncia che è anche un augurio. Perché, come in tanti ci hanno scritto, la «parola “cultura” dovrebbe necessariamente essere associata ad un vivere corretto e civile».

LA LETTERA – Ecco il testo di Lucia (nome di fantasia): «Io ottenni una borsa di studio dottorale messa in palio dall’università di … che fu finanziata dall’ente pubblico presso il quale lavoravo, ergo: era la mia borsa di dottorato. Volevo fare il dottorato da quando mi ero iscritta all’università; non sono né figlia né nipote di, ma ero l’assistente di… In attesa nel concorso trovai un posto come consulente presso un ente pubblico, nel quale mi occupavo della stessa materia della mia tesi, e il mio Professore «arrangiò» il finanziamento. Mi presentai al concorso. Mi sedetti coi 7 partecipanti; si fecero gli scritti a porte aperte e gli orali a porte chiuse. Vinsi, ovviamente, la borsa. Sono pronta a difendere quanto le sto per dire sotto giuramento: mi creda quando le dico che non ci dormivo la notte, mentre questa prassi (di raccomandazione o finanziamenti ad hoc) era del tutto accettata, e non criticata, dai dottorandi che ne usufruivano».

I DUBBI – «Io invece – prosegue Lucia – mi chiedevo in continuazione: sono un dottorando perché sono veramente dotata in questo campo o perché sono l’assistente di con la borsa finanziata da? Le sembrerà banale e invece è un punto chiave: quel che i dottorandi si sentono dire è infatti che, in virtù della mancanza di risorse, «vanno create le occasioni» per poterli mandare avanti.Mi domandavo: mi mandano avanti perché sono brava, o sono brava perché mi mandano avanti? Inutile dirle infatti che io ricerca, negli 8 mesi che resistetti, non ne feci mai. Feci solo, e tanta, assistenza. Senza mai sentire NESSUNO lamentarsene oltre misura. Torturata – letteralmente – da una profonda insicurezza circa le mie reali capacità e la mia volontà di sostenere un compromesso che mi sembrava, di fatto, una truffa venduta come «l’aver creato l’occasione», mi iscrissi di nascosto ad un secondo concorso al Politecnico di Milano. Mi alzai alle 4 del mattino per presentarmi al concorso senza sapere nulla né della commissione né dei partecipanti, e vinsi la seconda borsa in palio; inutile dire che si fecero scritti e orali a porte aperte. Ricordo il messaggio che spedii a mia sorella con le lacrime agli occhi: “Una vittoria mia, ma una vittoria di tutta l’università italiana”.

IL RISCATTO – Di li a poche settimane mi chiamò per una intervista di lavoro un politecnico olandese per un posto di assistente alla ricerca, sulla base del mio mero curriculum vitae, e mi fu offerto il posto. Me ne andai, e non mi sono mai voltata indietro. Mi «licenziai» dall’Università di… con una lettera congiunta a tutto il dipartimento in cui spiegavo le mie ragioni ed il mio grande senso di autostima ritrovato. Nessuno dei dottorandi, mi rispose; dal mio professore e dal preside fui presa, verbalmente, ma letteralmente, a calci, e fui accusata di aver tradito la loro fiducia e di aver osato non presentare prima le mie rimostranze di fronte a quel che io definii «il sistema». Ma questa è un’altra storia, che riguarda me e la mia coscienza, e di cui sono alla fine, tutto sommato, orgogliosa.

IL CAMBIAMENTO – Sono passati tanti anni e quel che vorrei dirle in sostanza è questo: il cambiamento vero partirà dalla volontà e dal senso di dignità dei singoli di non accettare il compromesso cui le università italiane chiamano la nostra coscienza. Essere un buon ricercatore significa avere gli standard per lavorare non in quell’ateneo o quel dipartimento, ma nel mondo. La conoscenza appartiene al mondo; e quindi, a cosa serve avere il posticino messo in palio da papà, senza poi il rispetto della comunità scientifica internazionale, che è l’unico vero giudice dell’operato di un ricercatore? Mi rendo conto che è molto banale quanto le scrivo. Ma è tutto quel di cui mi sento di far da tramite e testimone, nel mio immensamente piccolo.
Cordialmente, Lucia».

fonte:corriere.it    inserito da Michele De Lucia

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