OBAMA CHIUDE E SPRONA L´AMERICA: "SCRIVIAMO LA STORIA"

4 novembre 2008 | 00:00
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OBAMA CHIUDE E SPRONA L´AMERICA: "SCRIVIAMO LA STORIA"

CHICAGO – E’ stata una lunghissima marcia, partita nello scetticismo generale e passata attraverso le montagne russe dello scontro con Hillary Clinton. Per Barack Obama ora è arrivato il momento di passare il testimone agli elettori e attendere. “Ho fatto tutto quello che potevo – ha detto il candidato dei democratici alla Casa Bianca, tirando le somme della campagna – ora tocca alla gente. America, in questo momento che segnerà la storia, possiamo finalmente dare al Paese il cambiamento di cui ha bisogno”.

Un’ultima raffica di bagni di folla con gli elettori in Stati che quattro anni fa scelsero George W. Bush, poi per Obama è venuta finalmente l’ora di puntare l’aereo verso Chicago, per andare a votare nella città che lo ha adottato negli anni Ottanta e prepararsi a una possibile festa martedì notte in un parco cittadino. Non prima però di aver compiuto un ultimo blitz nel giorno del voto nel vicino Indiana, dove Obama ha messo in programma visite ad alcuni seggi a sorpresa per salutare gli elettori. E’ uno Stato simbolo del possibile sconvolgimento della mappa politica dell’America che può arrivare nell’Election Day: l’Indiana non sceglie un democratico dal 1964, quattro anni fa i repubblicani lo vinsero con il 20% di vantaggio, ma ora potrebbe diventare ‘blu’, il colore dei democratici. Gli strateghi democratici, guidati dal ‘genio’ di Chicago David Axelrod, hanno evitato come in passato di concentrarsi solo sugli Stati-chiave che possono permettere a Obama di raggiungere la quota di 270 ‘voti elettorali’ necessari per vincere. Uno dei maggiori punti di forza della campagna elettorale di Obama è stata invece la capacità di attaccare gli avversari su scala nazionale, in ogni Stato, con una potenza di fuoco alimentata dall’entusiasmo dei volontari e dalla mole senza precedenti di soldi raccolti dal candidato (il suo bilancio finale potrebbe superare i 700 milioni di dollari).

Anche nell’ultimo giorno di campagna elettorale, Obama si è concentrato in Stati – Florida, North Carolina e Virginia – che sembravano impossibili da vincere per i democratici fino a poco tempo fa, e nei quali invece il senatore di Chicago è arrivato all’appuntamento del voto in vantaggio nei sondaggi.

“Dopo decenni di scelte sbagliate a Washington, otto anni di decisioni politiche fallimentari da parte di George Bush, e 21 mesi di una campagna che ci è portato dalla costa rocciosa del Maine al sole della California, siamo a un giorno di distanza dal cambiamento in America”, ha detto Obama a Jacksonville in Florida, ripetuto in North Carolina e gridato a tarda sera, nel comizio conclusivo a Manassas, in Virginia, in un luogo-simbolo per le memorie che custodisce delle battaglie che vi furono combattute durante la Guerra Civile del XIX secolo. Un traguardo significativo, per un candidato che aveva lanciato la corsa nel febbraio 2007 a Springfield, in Illinois, dove era iniziata l’avventura politica di Abraham Lincoln, il presidente che guidò l’America nella sanguinosa guerra fratricida combattuta sullo schiavismo. “Sono assolutamente in pace con me stesso – ha detto Obama in un’intervista radiofonica nel giorno della vigilia – perché sento di aver fatto tutto ciò che potevo fare. Adesso tocca alla gente decidere”.

Tra i messaggi finali che Obama ha affidato agli elettori che si apprestavano a invadere i seggi, qualcuno è risultato anche inedito, nonostante il fiume di parole spese in quasi due anni di campagna elettorale. In un’intervista a Mtv, per esempio, il possibile primo nero alla Casa Bianca ha messo in guardia gli appassionati del rap e della cultura ‘gangsta’ che non dovranno pensare che avere un ‘fratello’ come presidente sia necessariamente un permesso a lasciarsi andare. “C’é gente a cui non piace vedere le vostre mutande e io sono uno di quelli”, ha detto Obama, rivolto ai giovani che indossano i pantaloni a cavallo basso che lasciano scoperta la biancheria. Finita la maratona degli ultimi comizi, Obama ha dato appuntamento a Chicago alla moglie Michelle, che ha trascorso la vigilia esortando le truppe nel West, soprattutto nei combattutissimi Colorado e Nevada (nello Stato di Las Vegas, la tensione della campagna è stata fatale al responsabile dello staff di Obama, Terence Tolbert, ucciso da un infarto a 44 anni).

Nella metropoli affacciata sul Lago Michigan è cominciata l’attesa, che potrebbe sfociare in una gigantesca festa serale in un parco cittadino. Qui è stato allestito un grande palco che si apre a semicerchio e diventa una passerella allungata verso il pubblico. Dopo due elezioni per la Casa Bianca (2000 e 2004) in cui nessun candidato riuscì a presentarsi nella notte vincitore al proprio pubblico, stavolta i sondaggi sembrano indicare che l’America non dovrà aspettare troppo per conoscere il proprio presidente-eletto. E Chicago sogna che la festa avvenga nella regione dei Grandi Laghi, non tra i cactus dell’Arizona.
marco.bardazzi@ansa.it


REPUBBLICANI TEMONO DISASTRO ANCHE AL CONGRESSO
di Cristiano Del Riccio
Mentre la battaglia per la Casa Bianca appare perduta, il partito repubblicano sta cercando disperatamente di puntellare i suoi senatori e deputati impegnati, in un ambiente sfavorevole, in disperate sfide per evitare che il Congresso cada completamente nelle mani dei democratici. E’ una battaglia centrata, al Senato, su un numero magico: 60. Se i democratici, che possono contare adesso su 51 voti su 100, riusciranno a strappare altri nove seggi ai repubblicani raggiungeranno la quota necessaria per superare tutte le manovre di ostruzione del partito rivale, diventando di fatto i ‘Padroni del Congresso’. Già i democratici dominano la Camera, con 235 deputati (17 più della maggioranza necessaria di 218 seggi), e sono previsti ulteriori guadagni di deputati: i sondaggi mostrano che i candidati repubblicani alla Camera sono in pericolo anche in Stati tradizionalmente a loro favorevoli. Scricchiolano anche le aree suburbane, un segno allarmante per il partito di McCain.

La battaglia per il Senato vede l’attenzione concentrata su 13 seggi dei 35 in palio (circa un terzo del Senato): la brutta notizia per i repubblicani è che tutti e 13 i seggi, tranne uno, appartengono al loro partito, che deve impedire assolutamente ai democratici di strappare nove seggi ai rivali. Ma un seggio è già perduto. In Virginia, Jack Warner si ritira e a sostituirlo sarà quasi sicuramente l’ex governatore democratico Mark Warner (che non è parente dell’ex marito di Liz Taylor, John William Warner). I repubblicani sono rassegnati a perdere i loro seggi al Senato anche in Colorado e New Mexico (dove hanno sospeso le spese pubblicitarie). Questo abbassa a sei il numero dei seggi che i democratici devono vincere. Una speranza viene, per il partito di Barack Obama, dall’Alaska dove il leggendario repubblicano Ted Stevens (che da 40 anni rappresenta al Congresso lo Stato di ghiaccio) sarebbe inattaccabile se non fosse stato appena riconosciuto colpevole, da una giuria, di corruzione per essersi fatto rimodellare la casa a spese di una compagnia petrolifera.

La condanna ha dato una opportunità al rivale democratico Mark Begich che, incredulo per tanta fortuna, è in testa nei sondaggi. Appare molto incerta la competizione in altri quattro seggi repubblicani al Senato dove gli sfidanti democratici possono avere una concreta possibilità di vincere. In Oregon, dove si vota per posta, il senatore repubblicano Gordon Smith, annusata l’aria, ha riempito di elogi il democratico Obama prendendo le distanze più possibile dall’amministrazione Bush. In Minnesota un altro senatore repubblicano appare in difficoltà: Norm Coleman ha avviato addirittura una causa contro il candidato democratico, l’umorista Al Franken, che l’ha definito il quarto senatore più corrotto del Congresso.

 Appare nei guai, in North Carolina, anche Elizabeth Dole, moglie dell’ex candidato alla presidenza Bob, che rischia di perdere contro l’aggressivo Kay Hagan. Nel New Hampshire trema anche il repubblicano John Sununu. Anche vincendo tutti questi seggi, sono sette, ai democratici mancherebbero ancora due senatori per giungere a quota 60. Potrebbero uscire da quattro battaglie dove i repubblicani appaiono in vantaggio ma non sono sicuri di farcela: Mississippi, Georgia, Kentucky e Maine. In Kentucky il democratico Bruce Lunsford ha sfoderato un’arma segreta: l’attrice Ashley Judd, nata nello Stato e molto popolare, ha accettato di fare campagna per lui.

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                                      inserito da Michele de Lucia

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