ROMA – I suoi cassetti traboccano certamente di copioni non realizzati, abbozzi ed idee non capiti, tentativi per un cinema in cui è stato meteora sorprendente, signore del botteghino e altero emarginato. La carriera di Salvatore Samperi (padovano, nato il 26 luglio 1944, provinciale di buona famiglia sbarcato a Roma alla corte di Cinecittà e di cui oggi è stata annunciata la morte) è ben riassunta nel suo inizio e nella fine. Esordì, quasi per scommessa, nel 1968 producendo il suo primo lungometraggio “Grazie zia” con i soldi di parenti e amici e permettendosi un cast di “serie A” grazie al fortunato incontro con la Doria film che gli mise a disposizione la sensuale Lisa Gastoni, il raffinato Gabriele Ferzetti, l’enfant maudit Lud Castel dei “Pugni in tasca”. Fu un successo tanto trionfale quanto imprevisto, per un’opera girata in bianco e nero sui modelli della nouvelle vague. Quasi quarant’anni dopo, quando nessuno avrebbe scommesso facilmente su di lui, Salvatore Samperi tornò nel 2006 dietro la macchina da presa (questa volta una telecamera) per firmare uno dei maggiori successi televisivi degli ultimi anni come “L’onore e il rispetto” con Virna Lisa, Gabriel Garko, Giancarlo Giannini: grande saga familiare in sei parti sull’Italia degli anni ’50, trasmessa da Canale 5. Nei cassetti del regista rimane il progetto di un seguito cosi’ come una coproduzione italo-argentina che avrebbe coinvolto nuovamente Giannini e forse anche Claudia Cardinale. In comune l’inizio e la fine di questa sorprendente carriera hanno un tema di fondo che Salvatore Samperi condivideva con il suo modello dichiarato di gioventù, Marco Bellocchio, ovvero la sferzante critica nichilista dell’Istituto familiare e di un’Italia assetata di perbenismo borghese; ma nella vena di Samperi c’era anche una predisposizione naturale a usare i generi di successo, il linguaggio popolare, la trama a forti tinte. Più di una volta si è detto che il carattere dominante dei cineasti veneti (basti pensare a Tinto Brass) e una certa vena sarcastica e popolaresca, un gusto della provocazione sessuale che Brass fa risalire addirittura al poeta dialettale Giorgio Baffo e Samperi accostava più volentieri a una rilettura tutta italiana del clima libertario pre-’68. Formatosi sui banchi del liceo e poi nel fuoco del Movimento Studentesco universitario, in seguito accostato anche alle idee dei gruppi maoisti, in realtà Samperi era un anarchico che stemperava la rabbia e il complesso del provinciale nell’humor nero e nella voglia di stupire. Infatti poco dopo il trionfo di Grazie zia e dopo il controverso “Cuore di mamma” con Carla Gravina, abbandonò il cinema militante di quegli anni per rivisitare commedia e farsa con la complicità dell’amico veneziano Lino Toffolo o di Paolo Villaggio in film come “Un’anguilla da 300 milioni” o “Beati i ricchi” diretti fra il ’71 e il ’72. Intanto però Samperi è definitivamente assorbito nel clima del cinema romano e quando Silvio Clementelli gli offre una commedia per il grande pubblico, non si lascia sfuggire l’occasione. Con l’amico Alessandro Parenzo scrive nel 1973 “Malizia” che eleggerà Laura Antonelli a indiscusso sex simbol del cinema erotico capace di scandalizzare senza troppo provocare. Alle prese con i pruriti del vecchio Turi Ferro e del giovane Alessandro Momo, con una storia ambientata in una Sicilia convenzionale ma elegantemente filmata da Vittorio Storaro, Samperi crea un autentico fenomeno di costume che oggi sarebbe ingiusto confinare in un semplice filone di successo. Nessuna delle pellicole successive toccò gli stessi vertici anche perché, con l’eccezione goliardica di “Sturmtruppen” (dalle vignette di un altro grande irregolare come Bonvi) Samperi si specializzò nel melodramma familiare a tinte fosche e sensuali. Talvolta fu sottovalutato (“Ernesto” o “Liquirizia”) talaltra si limitò a sfruttare la popolarità della sua icona Laura Antonelli. Da irregolare era entrato nel cinema italiano e da solitario ne è uscito oggi, quasi di nascosto
ansa.it inserito da Michle De Lucia