IL DESTINO DELL’ANIMA ovvero SIAMO IMMORTALI?
Nel mio articolo “Le passioni ed i sentimenti“ del 21 marzo, ho chiarito come distinguere i sentimenti che fanno bene all’animo da quelli che, invece, deprimono la nostra pienezza spirituale.
In questa puntata parlerò della presunta immortalità dell’uomo, o meglio, dell’immortalità dell’anima che è la stessa cosa. Avevo previsto di scrivere in questo pezzo anche delle più recenti scoperte delle neuroscienze sul funzionamento del cervello. Purtroppo l’articolo diventava troppo lungo e ho dovuto rinunciarci … ne parlerò nella puntata della settimana prossima.
Cosa c’entra il destino dell’anima nel nostro percorso spinoziano verso la felicità? C’entra perché, prima di parlare dell’amore intellettuale di Dio, occorre abbattere le tre grandi illusioni che l’uomo si è creato lungo i millenni. L’immortalità dell’anima è la prima delle tre illusioni che mi appresto far cadere.
Cos’è l’anima? Bella domanda. L’anima, la cui etimologia deriva da anemos cioè vento, è senz’altro qualcosa di incorporeo, immateriale, evanescente. È un alone che circonda il nostro corpo? Un ectoplasma incollato alla nostra schiena? Una luce invisibile che circonda la testa? Per quanto mi sforzi non riesco a trovare un’immagine fisica dell’anima. Ma forse non è necessario avere un’immagine dell’anima.
Già i filosofi greci avevano distinto fra tre diversi tipi di anime e precisamente: (1) l’anima vegetativa, che governa le funzioni fisiologiche istintive (nutrizione, crescita, riproduzione); (2) l’anima sensitiva, che presiede al movimento e all’attività sensitiva; (3) e, infine, l’anima intellettiva o spirituale, che è la fonte della coscienza di sé e del pensiero razionale e che governa la conoscenza, la volontà ed il libero arbitrio.
L’anima che ci interessa in questa discussione è l’anima intellettiva/spirituale, quella cioè che è ritenuta immortale. Nella mia analisi, vorrei partire dalla dottrina dell’anima della Chiesa cattolica. Il catechismo, al paragrafo 366, recita:
“La Chiesa insegna che ogni anima spirituale è creata direttamente da Dio – non è « prodotta » dai genitori – ed è immortale: essa non perisce al momento della sua separazione dal corpo nella morte, e di nuovo si unirà al corpo al momento della risurrezione finale.”
In questo breve paragrafo non c’è solo la dottrina dell’anima ma l’essenza stessa della religione cattolica.
Se si affronta la materia con la mente sgombra da pregiudizi e in maniera razionale bisogna ammettere che l’immortalità dell’anima, proposta non solo dalla religione cattolica ma dalle religioni di tutti i tempi e paesi, è un classico caso di “wishful thinking”. Non v’è ombra di dubbio che riti e credenze di ogni sorta siano stati inventati per esorcizzare la paura della morte. Pur di illudersi di non dover morire, l’uomo si è costruito impianti teologici complessi e fantasiosi. Il filosofo scozzese David Hume, in proposito, ha scritto: “Le dottrine che sono motivate dalle passioni, quelle, cioè, che sono chiaramente generate dalla speranza e dalla paura, devono essere guardate con sospetto”. (mi scuso fin d’ora per le innumerevoli citazioni che farò in questo articolo).
Ma nel breve paragrafo del catechismo ci sono altre cose da guardare con sospetto. Innanzitutto, si dice: ” ogni anima spirituale è creata direttamente da Dio – non è « prodotta » dai genitori “.
Infusione dell’anima immortale dall’alto da parte di Dio al momento della nascita? O al momento del concepimento? (Prova ad immaginare il traffico pazzesco di anime di nascituri che scendono e anime dei morti che salgono verso il cielo a tutte le ore del giorno e della notte … non c’è il rischio di qualche incidente? J). In ambedue i casi Dio non è equo nel decidere la qualità dell’anima da infondere nel corpo del nascituro. Come si spiega altrimenti, che se un bambino nasce in una famiglia analfabeta è probabile che avrà un livello di spiritualità diverso da un coetaneo nato in una famiglia che ama e pratica la cultura? E se un bambino nasce in una famiglia dedita al crimine non è probabile che avrà un’anima diversa da quella di un coetaneo nato in una famiglia onesta e laboriosa?
Un altro dubbio. L’anima immortale mantiene intatta, dopo la morte, la storia della coscienza, con tutte le esperienze fatte, e le persone amate? In questo caso, l’anima di una persona che muore molto avanti negli anni con la memoria debilitata, quando a stento riconosce i propri cari, quale storia della coscienza manterrà per l’eternità? Forse Dio, al momento della morte, si prenderà la briga di fare un “roll-back”, vale a dire, ripristinerà uno stato della coscienza indietro nel tempo corrispondente ad uno stato ideale di pienezza dell’anima? Dio è onnipotente potrebbe senz’altro farlo … ma cosa ne sarebbe delle esperienze, del bene e del male fatto fra il punto di ripristino e la morte?
Ma quello che è più importante notare nel paragrafo 366 è che l’anima sia disgiungibile, staccabile dal corpo. Prima l’anima viene infusa nel corpo, poi se ne stacca al momento della morte, infine si riunisce al corpo al momento della risurrezione finale.
Questa dottrina ha la sua base concettuale nel dualismo cartesiano.
Cartesio, nel seicento, sosteneva che Dio aveva creato due sostanze radicalmente distinte fra di loro: la sostanza pensante, res cogitans, la cui caratteristica essenziale è il pensiero, e la sostanza estesa,res extensa, la cui caratteristica essenziale è quella di occupare una determinata estensione fisica. Mentre la sostanza pensante, incorporea, immortale e libera da vincoli meccanici, si conforma alle leggi del pensiero, la sostanza estesa (es. il mio corpo, il computer che sto usando, …) si conforma alle leggi meccaniche della fisica.
La teoria di Cartesio cascava a fagiolo in un momento critico per il pensiero religioso. Nel seicento la cultura europea viveva un profondo sconvolgimento. Fino ad allora la gente credeva, con assoluta certezza, due cose: (1) che la Terra occupasse il centro dell’Universo, e (2) che gli esseri umani fossero il fine della creazione ed, in quanto tali, avessero uno ‘status’ speciale nell’ambito del creato. ” Padre santo, […] a tua immagine hai formato l’uomo, alle sue mani operose hai affidato l’universo, perché, nell’obbedienza a te, suo Creatore, esercitasse il dominio su tutto il creato”. (Catechismo, 380). (Hai letto bene: “dominio su tutto il creato” … ci avevi mai pensato? Non ci credi? Prova ad ordinare ad un sasso di sollevarsi un po’ da terra … devi usare un tono molto autorevole però … mi raccomando! J).
Galileo aveva scombussolato l’ordine dei cieli e fatto cadere la prima certezza; la seconda, di conseguenza, era rimasta sospesa scomodamente a mezz’aria. La preoccupazione dei filosofi, teologi e pensatori del tempo era quella di salvaguardare le antiche verità teologiche di fronte alle nuove conoscenze cosmologiche. Per costoro, risolvere il problema dell’anima, della relazione fra mente e corpo, era vitale per proteggere l’ordine politico e teologico ereditato dal Medioevo.
Il dualismo cartesiano era quindi stato subito accolto con grande favore perché metteva l’anima in un regno a parte, garantiva che le verità come l’immortalità, il libero arbitrio e, più in generale, lo ‘status’ speciale del genero umano fossero rese immune da ogni possibile contestazione o interferenza da parte dell’indagine scientifica del mondo fisico. La separazione drastica delle due cose realizzava un armistizio tra la religione costituita e la scienza emergente ma, nello stesso tempo, creava non pochi problemi logici ai suoi sostenitori.
I critici del dualismo cartesiano si chiedevano come può la mente, spirituale e immateriale, intervenire nel mondo fisico senza violare i principi meccanici che governano la materia. E, più precisamente, come fa uno spirito a far muovere un corpo? Come è possibile che la mente immateriale ed il corpo fisico interagiscano se sono così drasticamente separati e distinti? Il fatto che interagiscano è evidente: se io alzo il braccio è la mia mente che manda un ordine ai muscoli del braccio. Cartesio aveva pensato ad un improbabile “ghiandola pineale” posta al centro del cervello che doveva servire, non si capisce bene come, a tradurre il pensiero in ordini per il corpo.
Ma questo non era l’unico problema del dualismo. Cartesio, rifacendosi alla teologia, affermava che solo noi umani abbiamo l’anima spirituale in quanto solo noi siamo in grado ideare il concetto “penso dunque sono”. Ma che dire degli animali? Al riguardo, David Hume si chiedeva: “gli animali, senza dubbio, hanno sensazioni, pensano, amano, odiano, hanno una volontà e persino ragionano anche se in una maniera più imperfetta dell’uomo; anche loro hanno un’anima immateriale e immortale?”
Per i dualisti, il problema non si poneva. Non avendo (forse) autocoscienza, un cane non ha un’anima ed è in effetti, secondo il dualismo cartesiano, un corpo della ‘res extensa’ soggetto solo alle leggi meccaniche. Allora bastonare un cane e, in tal modo, stimolarlo ad abbaiare, equivale a percuotere con un bastone una cornamusa e stimolarla ad emettere dei suoni. Neonati, persone con funzioni cerebrali danneggiate, ponevano problemi simili quando si andava a verificare la validità del dualismo cartesiano. Dal momento che i neonati non sono in grado di dire “penso dunque sono”, essi sono privi dell’anima? La acquisiscono in seguito, per esempio, al decimo compleanno? Una persona molto avanti negli anni che a stento riconosce i propri cari ha ancora una mente in grado di speculare “penso dunque sono”? Evidentemente no. Questa persona non ha un’anima?
Il dualismo cartesiano entra poi in crisi profonda quando, all’inizio del novecento, Sigmund Freud scopre l’inconscio. Fu improvvisamente chiaro che dentro la nostra mente accadono tante cose delle quali non siamo e non possiamo essere coscienti. Crolla così il mito che tutta l’attività mentale è cosciente. Siccome, secondo Cartesio, per l’anima è rilevante solo ciò che può essere raggiunto dalla coscienza, tutto il resto, quindi anche l’inconscio, deve essere relegato nel girone infernale delle funzioni puramente corporali. L’inconscio entra allora a far parte della ‘res extensa’ ? Assurdo!
A questo punto scende in campo Spinoza. Il suo monismo (in contrapposizione al dualismo) è molto semplice: la ‘res cogitans’ e la ‘res extensa’ non sono due diverse sostanze ma la stessa cosa vista sotto due differenti aspetti. Sono le due facce della stessa medaglia. ” La decisione mentale da un lato e lo stato fisico del corpo sono […] una sola identica cosa “. Per essere più chiaro, più avanti, scrive:” La Mente non può immaginare nulla né ricordare le cose passate se non finché dura il Corpo”. La soluzione proposta da Spinoza del problema corpo-mente segna una radicale discontinuità nella storia del pensiero e manda gambe all’aria due millenni di religione e di filosofia.
Anticipando la più comune obiezione alla sua teoria, cioè che è inconcepibile che un grumo di materia (il cervello) possa essere in grado di ideare poesie, di progettare templi, di provare sentimenti amorosi, Spinoza scrive: “Nessuno finora ha appreso dall’esperienza cosa il corpo può o non può fare […] perché nessuno conosce la struttura del corpo tanto accuratamente da spiegarne tutte le funzioni […] il corpo umano supera in ingegnosità tutte le costruzioni della perizia umana” (“corpo” qui deve intendersi “cervello”). Queste parole, scritte tre secoli prima che le neuroscienze cominciassero a rivelare qualcosa delle straordinarie capacità del cervello umano, testimoniano la lungimiranza, chiaroveggenza e modernità del filosofo olandese.
Rifiutando l’idea che la mente è radicalmente distinta dal corpo, Spinoza risolve molti dei paradossi cartesiani. Per esempio, si sbarazza dei dilemmi concernenti i casi limiti, animali, neonati, idioti. Egli scrive: “Nella proporzione in cui un corpo può essere più adatto degli altri corpi ad agire in molti modi, nella stessa maniera, la sua mente può essere più adatta delle altre menti a percepire molte cose simultaneamente”. Che non vuol dire altro che ad un corpo (cervello) di maggiore complessità corrisponde una mente più raffinata.
Partendo da questo principio, Spinoza non ha difficoltà ad ammettere ciò che risulta evidente dall’esperienza di ogni giorno: che alcune menti sono superiori ad altre; che il deterioramento delle funzioni mentali delle persone anziane corrisponde ed è proporzionale al deterioramento delle cellule cerebrali dovuto alla vecchiaia che avanza; che il medesimo individuo può pensare meglio in certi momenti piuttosto che in altri, per esempio dopo aver bevuto una tazza di caffè; che danni al cervello possono causare l’indebolimento o la riduzione delle funzioni mentali; che gli animali mostrano un certo grado di pensiero; che coloro i quali sono morti o non sono ancora nati, non possono pensare affatto.
Secondo Spinoza, la mente è soltanto un’astrazione, un film nella testa generato da un insieme di processi cerebrali. E’ il cervello, cioè il fatto che una collezione di pensieri, di gioie, di ricordi e desideri appartiene ad un cervello particolare, a fornire unità ed identità all’anima.
Mentre il dualista crede che la mente sia una sorte di spirito che abita nel corpo e che quindi potrebbe eventualmente uscirne ed esistere da qualche altra parte, il monista crede che la mente sia la manifestazione dell’attività della materia cerebrale. Mentre il dualista tende a considerare la malattia mentale una possessione diabolica, là dove i diavoli sono spiriti maligni che prendono possesso del corpo in via temporanea e che perciò possono essere scacciati, il monista crede che la malattia mentale sia semplicemente dovuta al deterioramento di alcune cellule cerebrali.
Respingendo l’idea che la mente è una “cosa” di un genere tutto speciale, Spinoza polverizza letteralmente non solo le teorie dei filosofi suoi predecessori, ma anche le dottrine religiose che essi cercavano di proteggere. L’ultima e, per i credenti, tremenda conseguenza della teoria spinoziana della mente è la negazione dell’immortalità personale.
“Poiché, nella misura in cui gli atti mentali hanno sempre un correlato in stati fisici, dunque, quando gli stati fisici volgono in cenere altrettanto accade alla mente.”
David Hume, circa un secolo dopo, è sulla stessa linea di pensiero di Spinoza quando scrive: ” la debolezza del corpo e quella della mente sono esattamente proporzionati nell’infanzia, così come il loro vigore nella maturità ed il loro comune decadimento nella vecchiaia. Il passo successivo sembra inevitabile: il loro comune dissolvimento nella morte”.
E’ interessante notare come l’intuizione di Spinoza nel Seicento abbia trovato piena rispondenza nelle scoperte delle scienze neurobiologiche del ventesimo secolo.
Francis Crick, fisico, biologo e neuro-scienziato inglese ha vinto il premio Nobel nel 1962 per le scoperte sulla struttura molecolare degli acidi nucleici e la loro rilevanza nella trasmissione delle informazioni nella materia vivente. Crick ha scritto:“Le tue gioie e i tuoi dolori, i tuoi ricordi e le tue ambizioni, il tuo senso di identità personale e di libero arbitrio, non sono altro che il risultato dell’attività di una grande quantità di cellule cerebrali e delle molecole ad esse associate“. Più semplicemente, secondo Crick, l’anima (le gioie ed i dolori, i ricordi e le ambizioni, il senso di identità personale e di libero arbitrio) è solo il prodotto dell’attività del cervello.
In effetti, non solo Crick, ma tutti i biologi e scienziati della mente concordano, al giorno d’oggi, con il fatto che la coscienza è il risultato dell’attività del cervello. Come concordano anche con la tesi che il cervello umano si sia sviluppato nella complessità che conosciamo lungo l’arco di milioni di anni in base alla legge dell’evoluzione naturale.
Le neuroscienze hanno dimostrato chiaramente la stretta correlazione fra cervello e coscienza giungendo a quantificare empiricamente il tempo necessario perché l’attività cerebrale si traduca in pensiero. Secondo Edoardo Boncinelli, biologo molecolare, attualmente direttore del laboratorio di Biologia Molecolare dello Sviluppo all’Ospedale San Raffaele di Milano, scrive (Corriere della Sera, 30 agosto 2008): “… quello che emerge alla coscienza impiega non meno di un terzo di secondo per farlo. Questo è il tempo che separa il cervello dalla mente o, per meglio dire, dalla coscienza. Il nostro cervello lavora mettendo in atto continuamente processi inconsci: solo alcuni di questi, e solo qualche volta, emergono alla coscienza con il ritardo temporale fisso di alcuni decimi di secondo”.
Ma anche se si sono fatti passi avanti notevolissimi nella conoscenza dei processi cerebrali, bisogna dire che la neurobiologia è tuttavia assai lontana da una teoria della coscienza. Edoardo Boncinelli conclude il suo articolo sul Corriere della Sera scrivendo: “La neurobiologia oggi deve dedicarsi alla comprensione dei meccanismi della coscienza […] Non si tratta di meno di capire come si passa dal cervello alla mente. Come si passa cioè dal corpo allo spirito”.
Ma anche se la neurobiologia odierna è ancora lontana da una teoria della coscienza si può tranquillamente concludere che la mente senza cervello non può esistere. Il teologo Vito Mancuso, nel “L’anima e il suo destino”, pag. 62, scrive: “Il sapere che si manifesta nella mia mente è qualitativamente diverso rispetto all’insieme di particelle-atomi-molecole-cellule di cui è costituito il mio cervello. La torta è più dei suoi ingredienti ma senza gli ingredienti la torta non potrebbe esserci […]”.
E’ proprio così! L’anima, o coscienza o mente, non è il cervello … è più del cervello, ma senza il cervello non può esistere. Quando il cervello muore, anche l’anima muore. Parafrasando Cartesio si può tranquillamente dire: “Sum ergo cogito”, cioè, sono quindi penso, se non sono non posso neanche pensare.
A questo punto, mio caro, hai solo due scelte: o accetti l’illusione dell’immortalità dell’anima come un atto di fede oppure ti rassegni a non essere immortale. Se hai la fede non ci sono problemi. La fede ti permette di credere in tutto. Con la fede puoi essere certo, senza prove, anche di ciò che va contro la razionalità e la logica. Altrimenti che “fede” sarebbe!
Da parte mia, io sono per l’igiene, per l’ecologia della mente e cerco di evitare di accumulare rifiuti mentali derivanti dalla superstizione, dall’immaginazione, dai pensieri vaghi e superficiali che nascono nella pancia più che nella testa. Quindi io non credo assolutamente nell’immortalità, anzi, non saprei proprio cosa farmene di una vita dopo la morte.
Aspetta un attimo, ho detto: “non credo assolutamente nell’immortalità“. A pensarci bene questa affermazione non è proprio esatta. Più correttamente avrei dovuto dire “non credo assolutamente nell’immortalità personale” dove per“personale“ intendo la storia della coscienza individuale con le esperienze fatte, le persone amate ecc., ecc. . La coscienza personale senz’altro muore! Non esiste un futuro di vita personale oltre la morte!
Ma c’è un altro modo di intendere l’immortalità. Per cercare di spiegare cosa voglio dire devo prenderla da lontano. Devo poi pregarti di prestarmi un po’ di attenzione extra.
Tutti i teologi, a cominciare da S.Agostino, e tutti filosofi concordano su un fatto: Dio è fuori dal tempo. Ora, tutti sappiamo che Dio è eterno. Ma se è fuori dal tempo come fa Dio ad essere eterno? Semplice, eternità, per Dio, non significa l’infinito scorrere del tempo, senza un inizio e senza una fine. Il tempo di Dio non ha un prima, il passato, non ha un dopo, il futuro e non ha una durata: è un eterno presente.
La storia, lo scorrere del tempo, esiste solo nell’angusta prospettiva dell’uomo, ancorata ad un piccolo angolo di spazio e di tempo dell’universo che conosciamo che, molto probabilmente, è solo uno degli infiniti universi, ciascuno con il suo tipo particolare di tempo.
Oggi, in base alle conoscenze scientifiche, sappiamo che il tempo è un elemento intrinseco del nostro universo e che comincia a scorrere a partire dal momento del Big-Bang circa 15 miliardi di anni fa. Possiamo immaginare il tempo che scorre come una linea orizzontale che parte dal Big-Bang, sulla sinistra, e scorre verso destra. Noi siamo in questo momento in un punto preciso di questa linea, a sinistra abbiamo il nostro passato, a destra il nostro futuro.
Ora immaginiamo un tempo diverso che non scorre orizzontalmente su una linea da sinistra verso destra ma su una linea verticale dall’alto verso il basso e che interseca a 90 gradi il nostro tempo reale. Il celebre fisico Stephen Hawking chiama questo tempo che scorre in verticale ‘tempo immaginario ’ e lo usa, insieme ai principi della meccanica quantistica, per elaborare un’affascinante teoria sull’origine dell’universo che esclude l’intervento di un agente esterno, un Creatore, al momento del Big-Bang.
A me piace invece pensare all’infinito numero di linee verticali che intersecano la linea orizzontale del tempo reale come “il tempo di Dio”. Intersecando a 90 gradi la linea della storia dell’universo, il tempo di Dio abbraccia, in un solo sguardo, in un eterno presente, il passato, il presente ed il futuro dell’universo … e di ciascuno di noi stessi.
Sembrerà assurdo, ma se ti metti nella prospettiva dell’eterno presente, cioè del tempo di Dio, il tuo essere bambino ed il tuo essere persona adulta sono simultanei. Nella prospettiva di Dio non c’è divenire, cioè non c’è una successione temporale di eventi. Tutto è fermo nell’eterno presente perché tutto è già successo nella mente di Dio! Se rifletti per un attimo sull’onniscienza di Dio ti renderai conto che è proprio così. Non accettare questi concetti equivale a non accettare l’eternità e l’onniscienza di Dio.
Se nell’eterno presente di Dio c’è tutto ciò che è stato, è e sarà, dobbiamo dedurne che siamo ‘IN’ Dio prima della nostra nascita, durante la nostra vita e anche dopo la nostra morte. Potremmo dire che noi siamo eterni perché viviamo il nostro temporaneo presente nell’eterno, stabile presente di Dio. Il filosofo Ludwig Wittgenstein in proposito ha scritto: “se per eternità non si intende una durata temporale infinita ma assenza di tempo, allora vive eternamente chi vive nel presente”.
Il filosofo Emanuele Severino dice che le persone che scompaiono non sono improvvisamente entrate nel nulla, come sembrerebbe, perché non possono farlo; sono semplicemente scomparse dal nostro “orizzonte degli eventi” ma continuano ad esistere in una dimensione (l’eterno presente di Dio) che è al di fuori del mondo che riusciamo a percepire. Per Severino tutto è eterno. “Ogni cosa che ha la proprietà di essere ha, per la stessa natura dell’essere, la proprietà di essere eterna“.
Questa affermazione sembra in stridente contrasto con il senso comune, ma la realtà, per Severino, è come la pellicola di un film: i fotogrammi esistono già prima di passare davanti al proiettore, e continuano ad esistere una volta che l’hanno passato; nello stesso modo gli enti esistono già prima di apparire nel mondo, e continuano ad esistere anche una volta che non sono più percepibili.
Per concludere: siamo immortali? Sì, siamo immortali! Ogni attimo, ogni nanosecondo della nostra vita è immortale nel tempo di Dio. Indagando sulla teoria della relatività di Einstein ho intuito una cosa sconvolgente, almeno per me: il tempo di Dio trova corrispondenza nel tempo dell’universo quadridimensionale della teoria della relatività.” […] per noi fisici, la distinzione fra passato, presente e futuro è solo un’illusione, anche se molto convincente”. (Einstein).
Kurt Goedel, uno dei più grandi matematici del XX secolo, ha scritto un saggio dal titolo “A Remark about the relationship between Relativity Theory and Idealistic Philosophy”. Partendo dalla constatazione che è impossibile scomporre lo spazio-tempo in sezioni significative di presente, egli dice: “Non è realistico pensare che il mondo consista di una serie di attimi indefinibili che, in rapida successione, appaiono e svaniscono dall’esistenza. E’ più realistico pensare che il passato ed il futuro esistono permanentemente“. … come nel tempo di Dio, aggiungo io. Non per niente, per Spinoza, la Natura e Dio sono la stessa cosa.
Vedo del fumo uscire dalle tue orecchie e mi fermo qui. Nella prossima puntata parlerò del funzionamento del cervello secondo le più recenti teorie delle scienze neurobiologiche.
A sabato prossimo!
Luigi Di Bianco
comments are welcomed … ldibianco@alice.it
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30/06/2009 PERMETTETE CHE MI PRESENTI: Sono Luigi Di Bianco
In merito a questo articolo ho ricevuto una e-mail che mi sembra opportuno pubblicare insieme alla mia risposta.
Da: Angela C. [mailto: …. ]
Inviato: venerdì 24 aprile 2009 18.32
A: Luigi Di Bianco
Oggetto: Il destino dell’anima
Caro Luigi
ho continuato a leggere con molta attenzione i tuoi articoli, (chiedo scusa se sono passata a darti del tu) e nello stato d’animo in cui mi trovo ora, ho trovato molto utili le tue riflessioni, ancora non riesco a leggere tutti gli articoli anche perché il sito di Positanonews in alcuni momenti non riesco a visualizzarlo bene, o meglio vedo solo le colonne laterali ma il frame centrale non riesco a vederlo…forse più tardi riprenderà a funzionare bene.
Se mi permetti vorrei farti una domanda che mi sta particolarmente a cuore:
“dunque l’anima individuale dopo la morte del corpo muore anche lei oppure si fonde con il Tutto dove non ci saranno più distinzioni individuali?”
Forse lo avrai già spiegato negli articoli che ancora non riesco a leggere…se puoi ti prego di rispondermi.
Intanto voglio ringraziarti ancora per il modo semplice, efficace e a volte divertente con cui riesci a trattare argomenti così complessi e importanti!
Un caro saluto
Angela C.
———
Da: Luigi Di Bianco
Inviato: 26 aprile 2009 20.51.33
A: Angela C.
Oggetto: R. Il destino dell’anima
Cara Angela
Innanzitutto grazie per i complimenti.
“dunque l’anima individuale dopo la morte del corpo muore anche lei oppure si fonde con il Tutto dove non ci saranno più distinzioni individuali?”
Bella domanda …
Spinoza prima dice “la Mente non può immaginare niente né ricordare alcuna cosa passata, se non finché dura il Corpo”.
Poi, un paragrafo dopo, dice “la Mente umana non può essere assolutamente distrutta insieme al Corpo, ma di essa rimane qualcosa che è eterno”
Le due cose sembrano in contraddizione ma non lo sono.
Vediamo se riesco a spiegarti come io penso che stiano le cose …
Qui sono in gioco varie cose: corpo, anima individuale, eternità, durata, esistenza, essenza.
Secondo me la chiave di tutto è il rapporto fra esistenza e essenza.
Ho in mano una matita. Su un foglio di carta bianco disegno un triangolo. Lo contemplo per cinque secondi poi lo cancello con la gomma.
Questo particolare triangolo è esistito sul foglio di carta per cinque secondi. Da questo stupido esempio si può già capire che “l’esistenza si esplica mediante la durata (5 secondi).”
Cosa dire dell’essenza del triangolo? Dal dizionario: “essenza: ciò che senza di cui una cosa non può né essere pensata né compiuta”.
Ora, l’essenza del triangolo è il fatto che, per essere pensato e compiuto, un triangolo deve avere tre lati e tre angoli e che la somma degli angoli interna deve essere di 180 gradi.
L’essenza del triangolo si può definire nel tempo? L’essenza del triangolo dura 10 anni, 100 anni, un miliardo di anni?
La risposta è che l’essenza non ha durata, non si esplica nel tempo … non può essere definita dal tempo … è eterna nel senso che è fuori del tempo.
Veniamo all’uomo. L’esistenza dell’uomo di nome Filippo comincia con il concepimento e termina con la morte. Quindi anche l’esistenza dell’uomo, si esplica mediante la durata. Per Filippo, inteso come corpo e anima, non c’è un dopo. L’anima di Filippo non va a fondersi in niente perché terminata la durata della vita termina anche la sua esistenza.
Cosa dire dell’essenza di Filippo? Qui dobbiamo individuare due livelli diversi. C’è l’essenza dell’uomo in quanto parte del genere umano quindi con due gambe, due braccia, una testa, due occhi ecc. ecc.; ma c’è anche l’essenza di uomo particolare di nome Filippo, di sesso maschile, con gli occhi azzurri, ecc. ecc.
Spinoza dice che non solo l’essenza del genere umano, ma anche l’essenza di Filippo sono nella mente eterna di Dio.
“Dio non solo è la causa dell’esistenza di questo e quel Corpo umano, ma anche della loro essenza […] e quindi tale concetto deve essere necessariamente dato in Dio”.
Quello che rimane eterno è quindi il concetto, l’idea di Filippo. “In Dio è data l’idea che esprime sotto specie di eternità l’essenza di questo o di quel Corpo umano”.
Questa riflessione può essere di aiuto nei momenti di disperazione per la perdita di un proprio caro? Ho paura di no. In fin dei conti, l’eternità di Dio è qualcosa che per noi umani non è sperimentabile. Per trarre qualche beneficio da queste considerazioni occorrerebbe cambiare la prospettiva con cui si guarda la realtà. Per Spinoza, la vera saggezza è guardare il Tutto “sotto specie di eternità”, guardare le cose con gli occhi del Tutto, se ne avesse.
In questa dimensione si può cogliere la comunione della nostra anima con l’anima del proprio caro … oltre che la comunione con il Tutto.
Un abbraccio
Luigi
___________________________________________________________
In merito a questo articolo, ricevo e pubblico un commento di Liviu Anastase, laureato in teologia presso l’Istituto Avventista di Cultura Biblica, attualmente dottorando presso la Libera Facoltà Teologica Ortodossa “San Gregorio Magno”.
Una risposta all’articolo di Luigi Di Bianco “IL DESTINO DELL’ANIMA ovvero SIAMO IMMORTALI?”
di Liviu Anastase
Leggendo l’articolo Il destino dell’anima ovvero siamo immortali? di Luigi Di Bianco, aggiungerei qualche osservazione.
La dottrina dell’immortalità dell’anima ha le sue origini nel dualismo platonico dato il contrasto (dicotomia) fra i due elementi strutturali nell’uomo: l’anima è chiusa nella prigione del corpo in attesa della sua liberazione. Siffatta polarità e antagonismo favorisce il disprezzo per il corpo (che nei nostri tempi torna a essere valorizzato, anzi messo troppo in risalto).
L’avvenire della modernità porta con sé il dualismo cartesiano. Dio aveva creato due sostanze distinte: la sostanza pensante, res cogitans, la cui caratteristica essenziale è il pensiero, e la sostanza estesa, res extensa, che determina l’estensione fisica. (W. Windelband descrive come Plotino afferma che l’essenza di Dio è assoluta unità. Invece i suoi effetti sono molteplici e mutevoli – dei prodotti accessori che formano l’universo. Come implicazione di ciò, nello spirito umano invece l’unità suprema si sdoppia nella dualità di pensiero ed essere, coscienza e oggetto della coscienza.)
Riferendosi a questo pensiero dualista di Decartes, alla luce del pensiero heideggeriano, Franco Volpi descrive la coscienza viziata appunto dal presupposto cartesiano: “Cartesio postula una dicotomia nell’essere, dividendo l’essere in due grandi dimensioni: la res cogitans e res extensa, collegate tra loro tramite l’ipotesi di Dio, il quale garantisce la conexio tra il mondo dei miei pensieri e il mondo delle cose che i miei pensieri dovrebbero riflettere perfettamente. Lo specchio della coscienza è garantito dall’ipotesi di Dio. […] Presupponendo una separatezza tra pensiero ed estensione si costruisce tutta una filosofia della soggettività trascendentale. […]Heidegger reimposta la questione in termini di esistenza – esserci come essere nel mondo. […] Ecco il passaggio dalla coscienza all’esserci”. Analogamente, il monismo di Spinoza opta per una visione integrale in cui le due componenti sono due ipostasi della stessa essenzialità.
Direi che l’uomo non ha un’anima ma è (divenne) un’anima vivente (Ge 2: 7). Il modo giusto di stare al mondo è quest’aperturalità, di cui dimostrazione è l’interagire proficuo dell’anima spirituale con il proprio corpo e con il mondo della natura. Non c’è una spaccatura fra il mio mondo interiore spirituale e la proiezione che io mi faccio del mondo materiale. Non può essere che un mondo tutt’uno e armonioso. Il modo di interagire fra lo spirito e la materialità intesa soprattutto come corporalità è dialogale.Per dirla con Heidegger l’uomo è aperto al mondo. In fondo io stesso mi costruisco, cominciando a vivere, sin dalla tenera età, in confronto con il mondo. Il mondo entra nelle mie viscere (attraverso i sensi) e nelle mie idee (attraverso i pensieri che mi faccio sul mondo). Quindi, l’anima ha il compito di illuminare la materia, di modellarla e di assimilarla.
Di conseguenza, la concezione dualistica dell’uomo include l’immortalità della componente spirituale umana ed esclude la globalità e l’indivisibilità della persona secondo il senso che la Bibbia dà dell’essere umano (che non è diverso dagli animali quanto al principio [soffio] vitale che anima sia uno che l’altro – Ecclesiaste 3: 19). La differenza sta nella presenza della coscienza nell’uomo. La Bibbia (soprattutto negli scritti paolini), non vede un’altra opposizione fra la carne e lo spirito che la resistenza della carne peccaminosa agli atti spirituali di volontà umana (Ro 7: 19).
La conseguenza inevitabile del dualismo è la fede in un eterno inferno, la fede nelle multiple reincarnazioni aprendosi così una porta per di più allo spiritismo e alla comunicazione con i morti. Mons. Gianfranco Ravasi appropriatamente avverte la dottrina dell’immortalità dell’anima (e dunque anche il dualismo platonico), come un apporto della cultura greca, rilevando tuttavia la contrarietà di tale dogma all’insegnamento biblico.
Nelle religioni del tempo ciclico (che predicano la trasmigrazione delle anime) c’è sempre la possibilità del riscatto perché è possibile il ritorno sui propri passi in una vita futura. Le azioni non sono più uniche e perdono di significato. Il tempo è recuperabile dunque ne consegue una caduta etica perché non c’è più vera responsabilità.
Un’altra questione da trattare è la comunicazione dell’immortalità all’uomo, ad opera di Dio dopo la risurrezione, come un dono. Dell’immortalità personale non se ne può parlare che dopo la risurrezione, quando Dio concederà la perennità dell’eterno presente escatologico anche all’uomo redento. Dio è fuori dal tempo in un eterno presente, dunque dona questa capacità anche all’uomo. Nella dimensione escatologica la temporalità storica è immersa o inclusa dall’eternità. Oppure meglio, è annullata dall’irruzione di Dio nella storia umana dando appunto anche all’uomo la possibilità di vivere dentro la profondità eterna di Dio, dunque in un tempo fuori dal tempo.
Perché aspettare la fine dei tempi (dimensione escatologica) perché la temporalità storica possa venire immersa o inclusa (risucchiata) nell’eterno presente? L’eterno presente è divino e non può essere umano (ancora). Il mio scrivere in questo momento è già immerso nell’eterno presente di Dio. Io, l’essere storico, non vivo l’eterno presente che solo come un’attesa (speranza) quindi solo virtualmente. Lo stabilire della differenza dell’ “attributo di età” lo fa il protagonista. L’uomo subisce il tempo storico, Dio è agente e promotore dell’eternità. Per Dio non c’è attesa (che di natura relazionale dato che attende la salvezza di tutti); per l’uomo sì, c’è attesa, perché non ancora eterno come il suo Dio, che permeerà l’intero creato con la sua presenza e con la sua eternità.
Parliamo ora un po’ dell’immortalità personale dopo la resurrezione. Se l’anima muore con il corpo dove viene conservata l’identità personale che rivive al momento della resurrezione? Poiché onnipotente, in Dio l’identità personale di ogni persona è conservata integra. È vero che l’immaginazione del fisico Tipler è grande (che parla di un ricongiungimento “quantico” di ogni informazione con ogni altra nella storia dell’universo in un enorme “mega-chip” – il punto Omega – che conterrà quindi l’intero sapere accumulato, ogni conoscenza, ogni storia personale). Però, l’idea della conservazione di ogni storia personale non mi sembra alla fine molto lontana dalla Bibbia laddove parla dei “libri” di memoria degli atti umani buoni o cattivi.
È simpatica l’osservazione di Luigi Di Bianco, rivoltami in una lettera: “L’immaginazione al servizio dell’immortalità risiede nell’enorme egocentrismo della specie umana. Ci sentiamo una specie superiore perché siamo stati indotti a pensarlo dalla religione, che ci ha voluti definire figli prediletti del Creatore. Ma cosa accadrebbe se ci rendessimo tutti conto di essere animali nient’affatto speciali? In fondo, non sappiamo neppure volare, mentre gli uccelli sì …”.
Io comunque non sarei così radicale nel stabilire l’animalità umana solamente perché abbiamo un solo costituente in più rispetto agli animali (la ragione). In fondo le nostre capacità creative e spirituali ci fanno ‘volare’ più in alto degli uccelli. Piuttosto farei una distinzione effettiva tra creato-uomo e creato-animale sulla base della nostra derivazione essenziale da Dio (non in senso ontologico – senso in cui siamo in un rapporto di discontinuità con Dio –, ma piuttosto relazionale). In virtù di essa, come promessa di ripristino della Sua somiglianza nell’uomo, l’eone futuro porterà la riammissione nei nostri diritti primordiali. L’uomo sarà rifatto eterno ma questo dono sarà condizionato dalla grazia divina (il dono è il significato della grazia). In ogni caso, questa dipendenza non altererà la qualità della sua umanità: l’uomo escatologico sarà un ente legato alla vita divina ma indipendente (libero) nella sua umanità piena.
Liviu Anastase