“Attraversamenti Memoriali” al Museo della Memoria, Pomigliano d’Arco, Napoli a cura di Maurizio Vitiello
RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO
Sarà inaugurata, al Museo della Memoria, Piazza Mercato, 80038 Pomigliano d’Arco, Napoli (tel. 081 884 91 20 – museomemoria@piazzacomune.it), domenica 11 ottobre 2009, alle ore 10.30, la mostra, curata da Maurizio Vitiello, intitolata “Attraversamenti Memoriali”, con opere recenti di Antonio Ciniglio, Maria Pia Daidone, Peppe Malfi, Errico Ruotolo, Aldo Salatiello, Luciano Scateni.
Catalogo e “cd”.
Sino a sabato 7 novembre 2009.
Orario: lunedi – sabato: 9-13; martedi – giovedi, anche: 16-19.
Scheda della mostra “Attraversamenti Memoriali”, a cura di Maurizio Vitiello
In questa mostra s’incontrano artisti con vari vissuti e con diverse partenze. Nelle opere degli artisti qui considerati si riflettono attraversamenti memoriali. Nelle cognizioni artistiche che oggi si presentano la memoria è fondo di avvio e i passaggi diaristici rafforzano un orizzonte di profili evocativi, aggettanti, risonanti. Alza il livello qualitativo la metabolizzazione di estremi, quelli epocali e quelli intimistici, quelli sociali e quelli domestici. Ogni artista invitato delimita un proprio ambito di ricerca, finitimo agli altri. Le rispondenze estetiche squillano e si specchiano, movimenti ed intrecci solidificano congetture e rimandi. L’incontrarsi per gli artisti è vivificare la comunicazione, il sentire comune, insomma, l’idem sentire e pronunciarsi per altre possibili incontri espositivi collettanei. Ogni mostra risponde ad un progetto; questa mostra risponde alla voglia di rendere praticabile l’arte contemporanea nel “Museo della Memoria”, luogo sacro di Pomigliano d’Arco, dedicato a Vincenzo Pirozzi, martire delle Fosse Ardeatine, inaugurato il 24 Aprile 2004, e spazio ripristinato di un vecchio ricovero, rifugio anti-aereo della seconda guerra mondiale. L’apprendimento, con la capacità di lettura e dell’orientamento critico, può derivare anche dall’arte contemporanea sagomata a riflettere sul passato, a valutare le sfide del presente, ad indirizzare la progettazione del futuro. L’arte contemporanea la si può leggere, oggi, per fortuna, anche nei grandi musei napoletani, ad esempio nel Museo Nazionale Archeologico e nel Museo di Capodimonte, nel Palazzo Reale ed al Museo Principe Diego Aragona Pignatelli Cortes (Villa Pignatelli), a stretto contatto con sculture ed affreschi dell’antichità o con capolavori del Medioevo e del Rinascimento o del Seicento, Settecento ed Ottocento Napoletano. Quest’esposizione è un incontro parallelo tra segni incisi ed espressioni raccolte sul “fil rouge” del ricordo, associato e spinto dalla voglia di andare oltre le leggi dell’uomo per avvicinarsi, invece, a quelle sagge della natura. Questa doppia declinazione del motivo del ricordo si pone come un’interpretazione più liberale per captare qualsiasi movimento o gesto, che ci circonda o ci abbraccia. Questa tesi più diretta riesce a convogliare, tra l’altro, anche la comunicazione non verbale in filtri letterari e visivi, sino ad arrivare a “fermare” la memoria come testimonianza del vissuto.
Antonio Ciniglio è nato ad Ottaviano (NA), dove attualmente vive e lavora. Diplomato all’Istituto Statale d’Arte di Napoli nel 1979, è stato allievo di Mario Persico e di Silvio Merlino. Di lui si sono interessati vari critici d’arte. Ha allestito personali e partecipato a collettive ed ha sempre riscosso favorevoli consensi di pubblico e di critica. Si occupa, inoltre, di progettazioni di interni e di arredamenti. La sua forte e concreta caratura si nutre di forti vivacità cromatiche costituite da densi impasti matrici e ci rimanda ad un espressionismo informale lacerante e ad una gestualità nordica molto vicina al Gruppo Cobra, nonché alle ammiccanti atmosfere materiche di Alberto Burri. La matericità delle sue composizioni affascina non solo per i suoi coinvolgenti risultati, ma per il mirabile innesto con frammenti di legno e pezzi di arredo recuperati, che formano, nella molteplicità dei casi, gabbie e schermaglie inaccessibili, luoghi della memoria inesplorabili, paesaggi di oscure mitologie. Queste poetiche e simboliche costruzioni scardinano i nostri sogni mettendo a nudo la nostra pigra memoria. E che dire altro di quest’artista nascosto, di quest’artista semisconosciuto sino ad ieri, ed oggi non più; semplicemente formidabile, perfetto nell’equilibrio e nella resa; insomma, semplicemente valido e con una gran possibilità di emergere, di estroflettere partecipate redazioni plastico-pittoriche. Le sue sono realizzazioni sentitissime, elaborazioni di forte sintesi di animate convergenze sentimentali. Vigorose incidenze ed iperbolici trasporti immaginativi d’incastri, pervasi da una sensibilità di eccellenze cromatiche lasciano trasparire impaginazioni astratte e costruzioni segniche di rara efficacia e di felice resa. Nel vedere le opere di Antonio Ciniglio si riconosce una creatività mai avventurosa, ma ricca di avventure, mai forzata, ma tratteggiata da icastiche sequenze, mai pellicolare, beninteso, ma punteggiata di preziosità alchemiche e ben sunteggiata da segmenti decisivi.
Maria Pia Daidone dettaglia incidenze icastiche del mondo antico collegate a particolari specificità antropologiche contemporanee in una teoria di qualità di accenti in cui emergono sintetiche redazioni figurali ed una sequenza di animali, simboli pseudoiconici, segni aniconici, personaggi zoomorfi, feticci piumati, biomorfismi, fortemente eloquenti, per una fantasia realizzabile, per un’altra realtà possibile, senza con questo scomodare gli alieni. Il campionario zoomorfico della Daidone è singolare verifica e distintiva prova di sorgiva creatività. Le tracce di abbreviazioni magiche squillano nell’intuito della memoria ed anche nell’acutezza del ricordo accorpata all’ansia germinativa del fare, ma intendono anche rivelare voglia di libertà, respiro della scoperta e volontà immaginativa, allargata e convinta. Le valigie del ricordo di Maria Pia Daidone, anche appuntate per formare essenze totemiche fabulistiche, tra sorprendenti macro-stampelle, del tutto impreviste, ospitano indizi e sottili amenità plastiche, che, insieme, riescono a combinare passato e presente ed a collegarlo ad un orizzonte futuro, alimentato da una produzione inconscia di viaggi, ricordi, migrazioni letterarie. Inconscio ed immaginazione siglano sostanziali sineddochi visive. Se i “totem” incorporano l’dea di casa-albero, le valigie premiano il senso della volontà, la voglia del viaggio, la scoperta del mondo, mentre le macro-stampelle risultano modelli di sintesi di immaginazioni gigantesche, di ingrandimenti a dismisura del gioco e dell’ironia. In un’autonoma visione stilistica, parabola di stimoli mitici e sensi misterici, Maria Pia Daidone determina la sua cifra artistica. Intende estroflettere brani dell’inconscio per incontrare il governo misurato e partecipe del concept, che, filtrando il tutto, indica un rilevante interesse per un itinerario d’aggancio naturalistico con presenze, mai sgradevoli, di inventate figure animali, rese simpatiche da un prorompente e sostanziale ingegno inventivo. Ma che dire delle inconsuete sedie, che accolgono sagome, ormai stanche di ergersi bi-faccialmente nel contesto spaziale eletto dell’artista, che accettano, sul piano della seduta, terracotte, condensate di nero o riassunte di rosso, segnate da inverosimili voli di tempi e di leggeri uccelli, o lustrate nelle trasparenze di un giallo paglierino, che ospitano, in una dolce e pallida filigrana, motivi sereni e antichi, figurine animali amabili e sottili, con qualche noticina conturbante. Anche le sfoglie semi-rigide che compongono una zolla di cartone, con uno strato trattato a cartapesta, accettano impronte graffite ed orme e segnali di esotiche, strane e diverse iconografie animali. Insomma, su qualsiasi supporto operi, l’artista vien fuori con il suo interesse e la sua passione per il mondo animale e per le frontiere futuribili su cui “gioca” dimensionando ambiti accettabili di naturalità possibili. Anzi, nei suoi lavori, “gioca” con il nero che “mette” luce, tanto da far risaltare altri colori ed emergenze segniche; insomma, il nero adottato è specchio convinto, sui cui si staccano emozioni, ma anche “lago di ebano” su cui scivolano consapevoli nuances, preziosi riverberi e capillari incidenze figurali. Comunque, le ultimissime redazioni pittoriche dell’artista ed, in particolare, sagome dal sapore magico, di freschissima datazione, su cui insistono anche segni, segnacoli, segnature e fremono graffi, incisioni, strofinature, accostamenti di sacro e profano, raccolgono le vertigini del nostro tempo e ci rimandano a tempi antichi, in cui un graffito si interpolava come primo significativo elemento segnico-simbolico di interpretazione e di comunicazione sociale. Le elaborazioni di Maria Pia Daidone provengono dall’icasticità del mondo remoto e si offrono nella prerogativa di un sistema di dettagli antropologici contemporanei di rilievo. La gamma molteplice di determinazioni dell’artista consacra un plafond visivo di caratura storica, che accoglie nella sua estensione rilievi epocali e caratteri attuali.
Giuseppe Malfi cerca di elaborare una particolare pittura che vuole intendere una linea espressionistica e presenta percezioni ed interpretazioni di sensi della realtà. I suoi scenari rispondono agli assilli quotidiani. La mano di Malfi determina, in un reticolato di scaglie, spaccate figurazioni tormentate da luci ed ombre. Vibrazioni s’avvertono. L’artista, sequenza dopo sequenza, immette su frantumate composizioni singolari espressionistici risultati. Nei suoi dipinti campiture veloci e forti accettano schegge ed impronte, che regolano frastagliatissimi personaggi e compulsanti ritmi. Il pensiero di Giuseppe Malfi oscilla tra pitture totalizzanti e gravide ed umorali atmosfere. Il tratto è. Particolarmente. focalizzato da dosaggi pieni e sembra che gesto e materia vogliano applicarsi in quotidiano esercizio pittorico ad esaminare sostanze dei soggetti. Sentimenti forti lo spingono a movimentare la tela e la società all’angolo della strada e gli eventi mondiali lo attraggono. Il nostro vivere ed i sussulti quotidiani sembrano interessarlo, coinvolgerlo. Il focus dell’azione espressionistica pittorica di Giuseppe Malfi prende spunto da incontri e da analisi.
In quest’esposizione segue in parallelo gli altri artisti; nelle sue opere raccoglie il fil rouge del ricordo ed interpreta in movimenti e gesti filtrate comunicazioni.
Errico Ruotolo è un artista che ci manca. La sua duttilità, combinata ad una rapida freschezza inventiva, aveva la capacità di suscitare, attraverso il ragguaglio di felici intuizioni sul sociale e di fervide riflessioni sul contemporaneo, estreme attenzioni. Su Errico Ruotolo abbiamo scritto nei lontani anni Ottanta su una rivista nazionale (“Errico Ruotolo a Teggiano”, in “Verso l’Arte”, nn. 25-26, settembre-ottobre 1984) dopo aver visto una sua mostra in provincia di Salerno, curata dall’amico critico Massimo Bignardi, che ci illustrò la sacra location e c’informò sull’attività dell’artista, sempre schivo, ma trattenuto a concedere sue opere a critici (salernitani, sic!) e sempre operante in ottiche sociali con visioni comuniste e post-comuniste, suo vanto e suo limite. Cosa scrivemmo, tra l’altro? Ecco: “Le opere di Errico Ruotolo vibrano di luci e si alimentano di tagli arditi. Le persone raccontate sulla tela appartengono alla vita culturale della città e alla cerchia di amicizie di Ruotolo. Ogni quadro non solo è un ritratto sui generis, ma rappresenta una personale interpretazione delle personalità fissate. Ruotolo si conferma pittore attento alla vita della città e per raccontare l’evoluzione della sua pittura ben ha scelto puntando su personaggi che hanno qualcosa da dire. I quadri sono cromaticamente esatti e suggestivi, ricchi di un certo fascino esistenziale.” Errico Ruotolo lo ricordiamo da Gaetano Ganzerli, da Raffaele Formisano, da Lucio Amelio, galleristi scomparsi che hanno fatto epoca, lì per informarsi, molto, e per illustrarsi, con pervicace discrezione. Il segno, lo scatto, l’emozione veloce gli rodevano dentro; voleva affrontare li temi cocenti della contemporaneità grazie a quegl’impulsi vitali che gli sussurravano dentro possibili soluzioni estetiche nutrite, sentite e tese. Le sue soluzioni pittoriche sciorinavano le scaglie di realtà assunte in un centrifugato mix di codici e segnalavano piani di acquisizioni di riflessioni e contropiani ipotetici di letture e d interventi. Su tematiche interessanti interveniva la sua gestione pittorica umorale, svelta, graffiante, qualche volta risentita, qualche altra volta caustica, qualche altra volta corroborante, ma sempre utile per ulteriori verifiche.
Aldo Salatiello ha sempre praticato una sana operatività e guardato alle tendenze di un’arte contemporanea avvisata, mai intorta e tortile; intendiamo precisare che Aldo Salatiello ha trovato opportuno e responsabile aggregare aggettazioni cromatiche ed utilità plastiche per determinare conformazioni sospese tra lirismi domestici e delicatezze formali, non dimenticando, però, accensioni critiche e rilievi cronachistici. Insomma, Aldo Salatiello conosce bene come comporre, come equilibrare, come misurare la portata estetica delle sue elaborazioni, che sono di gusto e di felice sintesi. Aldo Salatiello sa promuoversi, sa agire, sa indirizzare il suo impegno visivo in una ben distribuita e regolare acquisizione di dati in un campo recettivo di rimandi e di interconnessioni. La sua mano posa e situa, attiva ed innesta un concerto di emozioni sottese, mai malamente espanse o fuori tono. Le composizioni di Aldo Salatiello indugiano sul sentiero del limite ed indagano nuove possibilità espressive; insomma, l’artista sente e rifila colori e legni, tessuti e materiali vari ed ulteriori in una rete sistematica di attenzioni al quotidiano. Semplicemente le opere di Aldo Salatiello immagazzinano coordinate per esprimere regole mediterranee e positività occidentali nella volontà di affinare in stesure d’esercizio esercitati ripensamenti per ottenere un concentrato di soluzioni visive. Aldo Salatiello ben inquadra topiche attualità che ben alloca in una texture ben bilanciata ad integrare dati e a rispondere ad esigenze chiarificatrici. Aldo Salatiello, fondamentalmente, intende compulsare strati e stratificazioni, memorie e reliquie, dettagli e particolari per rendere soggettive amplificazioni.
Luciano Scateni è un felpato giornalista ed artista astratto. Abbiamo conosciuto il giornalista Luciano Scateni ai tempi di “Napoli a piedi”, manifestazione promossa dal quotidiano “Paese Sera”, che, per la prima volta, vedeva la città partenopea sotto l’occhio vigile e premuroso di alcuni consapevoli, che pensavano ad una metropoli con delle alternative per itinerari e per progetti futuribili. Luciano Scateni tratta la pittura per rinviare ad una frontiera di limiti, per assicurare orizzonti astratti, per fissare compatibilità estreme. Il suo è un racconto per sintesi, per valori cromatici, per segni dati. Colori e frazionamenti intendono nell’opera di Luciano Scateni rendere chiarificazioni, certezze, rigori. Classificare i propri moduli mentali in segmentazioni che possano incapsulare i pensieri sono chiare dimostrazioni di prudenti formulazioni. La franca sincerità dell’artista Scateni è di colloquiare per vie sintetiche e chiare, immediate e veloci. Se la figurazione è interpretabile e digeribile anche nelle sue doti di qualità, se qualità c’è, ovviamente, l’astratto-geometrico è un accettabile e assiduo assunto, se, ovviamente, di qualità. Il linguaggio astratto-geometrico riesce ad assolvere brevi ritmi a più funzioni; riesce ad inquadrare problematiche, riesce ad evidenziare le tensioni operative, riesce a sviluppare andamenti esercitativi, riesce a sbloccare le direzionalità di sensi e di sentimenti. I percorsi astretto-geometrici riescono a spendere bene i termini di questioni annose e riescono a centrare una potenziale, virtuale verità di tragitti di idee. Insomma, fondamentalmente, la grammatica visiva dell’astratto-geometrico affascina Luciano Scateni, che, per brevità e per scansioni icastiche sottolinea “vele” ed in altri campi ristretti la voglia di circostanziare motivi e motivazioni.
Maurizio Vitiello
Inserito da Alberto Del Grosso