MERCOLEDI 27 GIUGNO 2012 – CHE SI FA STASERA? OMAGGIO A DI GIACOMO DELL´UNITRE DI PIANO DI SORRENTO
Due sono gli eventi di oggi, un tramonto con Franco Cristallo alle Gocce di Capri, e una piece teatrale al Teatro S.Antonino di Sorrento. Gli orari sembrano essere studiati, infatti sono consecutivi, per chi non vuole perdersi nessuno dei due eventi.
Mercoledì 27 giugno, ore 19:00, Gocce di Capri- Omaggio a Salvatore di Giacomo a cura del laboratorio teatrale dell’Unitre di Piano di Sorrento. Regia di Franco Cristallo. Ingresso libero. Lettura e recitaizone di testi scritti dal grande poeta a cura del gruppo teatrale dell’Unitre di Piano di Sorrento.
Di Giacomo, era appassionato di questi luoghi , vi trascorreva le estati, agli inizi del secolo scorso, allontanantosi da quella Napoli accaldata e caotica. In coda a questo articolo, riportiamo l’ultimo grande convegno a lui dedicato.
L’associazione “Gioia di Vivere” nasce in Sorrento nel 1999 con lo scopo di portare aiuto morale e materiale ai bambini leucemici e oncoematologici nonchè di sensibilizzare le persone ai problemi che nascono all’interno delle famiglie nelle quale sono presenti bambini affetti da queste gravi patologie.
Mercoledi 27 giugno alle 21,00 al Teatro Sant’ Antonino di Sorrento (presso la Cattedrale) si terrà uno spettacolo di beneficenza organizzato dall’Assessorato alle Pari Opportunità, nella persona della Signora Maria Teresa de Angelis, dall’Associazione Gioia di vivere, presieduta da Maria Antonietta Miccolupi, che si occupa dei bambini affetti da leucemie e tumori, e dal gruppo di promozione culturale sorrentino Il caffè delle muse.
I biglietti in prevendita al costo di 10,00 euro danno diritto al sorteggio di premi messi a disposizione dalla gioielleria Le Fer di Castellammare di Stabia. L’estrazione avrà luogo nel corso della serata in cui sarà offerta la visione di uno spettacolo teatrale scritto e diretto dal professor Giuseppe Infante, “Il Futuro dietro le spalle”, a cura del gruppo teatrale L’Airone.
La giovinezza inesorabilmente perduta, il senso di colpa e sconfitta, l’enorme potere di una società che schiaccia con le sue regole false e senz’anima i deboli nella loro inascoltata richiesta di affetto, sono i temi che feriscono i personaggi della commedia, che però, incapaci di omologarsi e riconoscere le proprie responsabilità, trovano sempre un’illusione per andare avanti e riscattarsi, attraverso l’ironia, la farsa, l’assurdo, il sogno, l’arte.
Il ricavato sarà interamente devoluto all’Associazione di volontariato onlus Gioia di Vivere , nata nel 1999, con l’obiettivo di aiutare moralmente e materialmente i bambini leucemici e oncoematologici e di sensibilizzare l’opinione pubblica a tali patologie.
Per l’acquisto dei biglietti contattare Carlo Alfaro, al 3336996970, o Marianna Scarpato, al 3331035532, oppure rivolgersi al Panificio Ercolano in Via delle Rose a Piano di Sorrento, adiacente il cinema.
Università degli Studi di Napoli Federico II Facoltà di Lettere e Filosofia
Dipartimento di Filologia Moderna Salvatore Battaglia
Master di II livello in Letteratura, scrittura e critica teatrale
Giornata di studio RITORNA Di Giacomo? Bilancio e prospettive di una storia a 150 anni dalla nascita
1860-2010
Napoli, 10 marzo 2010 Aula delle lauree Edificio centrale, corso Umberto ore 9,30
Saluti delle autorità
Guido Trombetti, Rettore dell’Università degli Studi di Napoli Federico II
Massimo Marrelli, Presidente del Polo di Scienze Umane e Sociali
Arturo De Vivo, Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia
Ore 9,45 I Sessione – Presiede Pasquale Sabbatino
Toni Iermano, “Ma solitario e lento / more ‘o mutivo antico“. Storia e erudizione nell’opera di Salvatore Di Giacomo
Raffaele Giglio, Pittura e poesia in Salvatore Di Giacomo
Pasquale Iaccio, Di Giacomo al cinema
Patricia Bianchi, Raccontare il teatro: la Cronaca del Teatro San Carlino
Dibattito
Ore 11,30 II Sessione – Presiede Toni Iermano
Nicola De Blasi, Storia dei testi e storia linguistica
Pasquale Sabbatino, Napoli “una città disgraziata, in mano di gente senza ingegno e senza cuore”. Le radici della scrittura di Salvatore Di Giacomo
Giuseppina Scognamiglio, Titina De Filippo interprete sublime del digiacomiano ‘O mese mariano
Isabella Valente, Di Giacomo e gli artisti: Dalbono, Migliaro, Scoppetta e Postiglione
Dibattito
Ore 14,30 III Sessione – Presiede Giuseppina Scognamiglio
Donatella Trotta, Il giornalismo come laboratorio letterario
Stefano De Stefano, Di Giacomo e il teatro
Ettore Massarese, Per una storia di Assunta Spina
Legge alcuni brani di Assunta Spina l’attrice Giovanna Capone
Vincenzo Caputo, Il “dubbio impaziente” dell’arte. Salvatore Di Giacomo biografo (Morelli, Dalbono, Gemito)
Dibattito
Ore 16
Conclusioni dei lavori e prospettive di ricerca a cura di Nicola De Blasi, Toni Iermano, Pasquale Sabbatino
La storia come immaginazione e poesia.
Salvatore Di Giacomo collaboratore di «Napoli Nobilissima»*
Spesso la polvere degli archivi
s’accumula sulla psiche d’altri
tempi. Don Bartolommeo sapeva
scuoter quella polvere: egli era
anche, e felicemente, un artista.
S. Di Giacomo, Bartolommeo
Capasso, in “Napoli
Nobilissima”, a. ix (1900),
fasc. iii, p. 34.
Salvatore Di Giacomo, fin da giovanissimo accanito frequentatore di redazioni giornalistiche ma anche di
librerie e di biblioteche, fu tra coloro “sensibili alla storia, suggestionabili dall’odor degl’in folio e dalla vecchia
fisionomia delle pergamene e degl’incunaboli” [1]. Gli interessi eruditi digiacomiani si erano espressi con
particolare chiarezza già nei primi anni Ottanta ed avevano trovato ospitalità non solo negli innumerevoli articoli
giornalistici ma anche in taluni testi poetici e in tante novelle ambientate nello spazio napoletano. Si pensi in
particolare a quella specie di atlante storico e toponomastico napoletano costituito dalle prime redazioni di
alcuni celebri racconti riuniti in Minuetto Settecento (1883), Nennella (1884), Mattinate napoletane (1886) e Rosa
Bellavita (1888) oppure alle tante cronache erudite confluite prima in Celebrità napoletane (Trani, Vecchi, 1896)
e poi in Napoli figure e paesi (Napoli, Perrella, 1909). Nelle novelle Chiesa bisantina (1883), La regina di
Mezzocannone (1886) La signorina dal caffè (1888), esemplari rappresentazioni del gusto antiquario
digiacomiano, si rintracciano gli elementi di un controllato ingorgo di interessi storici e di incalzanti spinte
sentimentali, tutto sottratto comunque alla nostalgia e alla pura erudizione grazie alle indubbie quanto vaste
capacità creative dello scrittore. Ne La signorina dal caffè si ripristinano nei ricordi dell’autore luoghi e oggetti
del tutto scomparsi, immagini di uno spazio che può rivivere esclusivamente nelle descrizioni di un mondo
dissolto.
Non ho mai precisamente saputo il nome di questo monastero in abbandono, regno oscuro e misterioso di
pochi monaci superstiti i quali si preparano, malinconicamente, a scendere nelle tombe gelide ove riposano,
da secoli, i loro predecessori. Se il tristo tentativo dell’Inquisizione non avesse trovata Napoli tanto
risolutamente avversa a un così feroce disegno, e se questo orribile tribunale della corda e della pece avesse
avuto qui, come altrove, la sua storia di strazi, avrei potuto pur credere che parecchi degli antichi prelati di
questa piccola badia in rovina fossero stati tra gl’inflessibili giudici che don Pietro de Toledo tentò di trapiantare
nella nostra avventurosa città. […] [2].
L’opera di risanamento della città portò alla demolizione di interi quartieri e alla scomparsa di numerosi luoghi
tipici della napoletanità. Di Giacomo patì notevolmente la perdita di uno spazio nel quale la letteratura, la pittura,
la poesia e le tradizioni popolari avevano costruito nei secoli incantevoli paesaggi della memoria. Le antiche
liriche di Voce luntane contengono già i motivi del saldo legame esistente tra Di Giacomo e i luoghi fisici della
sua poesia: Donn’Amalia ‘a Speranzella…, Ncopp’ e Cchianche, ‘O Vico d’ ‘e Scuppettiere, “addo’ se fanno
scuppette e pistole”, ‘O Vico d’ ‘e supire, testi tutti raccolti in Zi’ Munacella (1888).
La dissoluzione di un’immagine soggettiva della città indusse uno stato di precarietà individuale che provocò in
Di Giacomo una malattia esistenziale, segnata da una persistente crepuscolare malinconia autunnale. Nel
1888, inun articolo commemorativo dedicato alla morte del vecchio erudito Francesco De Boucard, l’ancora
giovane cronista del «Corriere di Napoli» dichiarava tutto il suo rammarico per la fine di taluni luoghi storici
della toponomastica napoletana:
Quand’io passo davanti al gigantesco paravento di legno e di stuoia che, nella via Toledo, nasconde ai troppi
curiosi il mistero dei lavori per la nuova Galleria; quando m’appare, talvolta, per una porta che s’apre a dar
passaggio a un carretto, la vuota immensità dello spiazzato, tutta conquistata dal sole e dalla polvere, mentre in
conspetto di questa felice rivoluzione edilizia mi si slarga il cuore, torna, a un tempo, al pensier mio il ricordo,
quasi dolce, delle vecchie pietre sparite. E il vico delle Campane, e il vico Rotto San Carlo, e il vico Sant’Antonio
Abate, questi tre cancerosi budelli che sono stati i primi ad essere strappati dalle viscere napoletane, eccoli
che, nel buio che si fanno intorno degli occhi chiusi e sognanti, si disegnano a poco a poco, si slungano e
ripullulano di persone e di cose, e in alto, ove erano i balconcelli e le finestre tanti buchi neri sulle facciate,
perfino par che ridano ancora al cielo azzurro, con un allegro chiacchierio di uccelli ingabbiati, e con la festa dei
mazzi di sorbe e di pomidori, maturanti al sole [3].
L’intensa passione per le antiche carte ma anche il desiderio di tutelare il patrimonio archivistico, bibliografico e
monumentale della città di Napoli, sempre più sottoposta come si è accennato ad un processo talvolta
ingovernabile di mutamento urbanistico, furono tra i motivi decisivi che spinsero Di Giacomo a proporre la
creazione di un periodico capace di studiare e far conoscere la storia patria, troppo spesso oggetto di ricerche
approssimative e di scarso rilievo culturale. L’idea, – condivisa da Benedetto Croce, Giuseppe Ceci, Riccardo
Carafa D’Andria, Luigi Conforti junior, Michelangelo Schipa, Vittorio Spinazzola -, portò nel 1892 alla
pubblicazione del primo numero di «Napoli Nobilissima». Rivista di topografia e arte napoletana [4]. L’uscita
del mensile, stampato a Trani dal pioniere dell’editoria meridionale moderna Valdemaro Vecchi [5], generò
largo interesse tra studiosi vecchi e nuovi e suscitò le curiosità di raffinati esponenti della rigogliosa società dei
dotti: in particolare avviò un intenso dibattito sulla difficile conservazione dei beni artistici della città a cui
collaborarono anche i migliori storici ed eruditi delle province meridionali; tra i tanti occorre ricordare almeno
Nunzio Federico Faraglia e Emile Bertaux nonché lo storico del folclore Gaetano Amalfi, allievo fedele di Vittorio
Imbriani. Non si possono dimenticare, nell’ambito di una storia del contesto sia culturale sia sociologico della
Napoli fin de siecle, i nomi di esponenti di grandi famiglie dell’antico regno che diedero con i loro articoli un
contributo rilevante alla rivista come Fabio Colonna di Stigliano, Antonio Filangieri di Candida, Nicola del Pezzo
dei duchi di Caianello, Antonino Maresca di Serracapriola. Piazze, vicoli, strade, siti reali, chiese dimenticate,
palazzi nobiliari, antichi toponimi, ricerche epigrafiche, fontane, storie di illustri famiglie, ritratti di personaggi ed
artisti, i casali napoletani e tanto altro ancora furono al centro di appassionati articoli, talvolta riccamente
illustrati, e di miracolosi recuperi in archivi e biblioteche [6]. Di Giacomo fu anche dal punto di vista organizzativo
ed editoriale tra i protagonisti principali della migliore riuscita dell’impresa, così come attesta il suo impegno
sia nel cercare abbonati sia nel migliorare il più possibile la rivista dal punto di vista estetico [7].
Studiosi di storia regionale del valore di Bartolommeo Capasso, Giuseppe De Blasiis e Giuseppe Del Giudice,
fondatori nel gennaio 1876 della Società Napoletana di Storia Patria, erano riusciti ad indicare le nuove linee di
una storiografia seria ed originale, rivolta essenzialmente allo studio delle fonti e alla riscoperta di autentici
tesori archivistici. In questo operoso ambiente di cultura e di alta moralità anche il giovane Benedetto Croce
trovò le motivazioni per appassionarsi alle cose napoletane.
Maestro e guida per circa un ventennio degli interessi storico-artistici di Salvatore Di Giacomo fu proprio
Bartolommeo Capasso (Napoli, 1815-ivi, 1900), colui che veniva opportunamente definito:
Il maestro di tutti coloro che han fatto e van facendo cose degne di attenzione e non inutili, l’aviatore della
gioventù volenterosa per la via della ricerca costante, quell’esemplare d’antica bontà mescolata e
immedesimata con le forme ultime dello studio esatto […] [8].
Il Capasso, formidabile cercatore di antiche memorie ed elegante biografo di Masaniello, pubblicò su «Napoli
Nobilissima» tra il 1892 e il 1897 una serie di bellissimi articoli su Il palazzo di Fabrizio Colonna a
Mezzocannone ma soprattutto guidò molti giovani verso lo studio della storia regionale. Per Capasso la storia
doveva intendersi come ineludibile processo di ricostruzione del passato. La narrazione dei fatti e l’uso della
fantasia diventavano strumenti creativi quasi indispensabili nelle grandi province cartacee dell’Archivio
municipale, non sempre capace da solo di inoculare nello studioso il fascino del tempo. Nella mirabile
illustrazione dei motivi dei suoi studi sulla Napoli greco-romana, conseguenza comunque di rigorose indagini
epigrafiche e topografiche, il vecchio studioso aveva limpidamente spiegato le ragioni metodologiche del suo
lavoro:
Per me e per quanti amano le patrie glorie, quelle mura sono sacre; io le guardo sempre con religiosa
venerazione. Passando sotto le basse volte di quegli archi, la mia fantasia attraversa i secoli, e, come per
incanto, si trasporta ai tempi che furono. Essa ricostruisce il diruto teatro, in cui Claudio fece rappresentare la
sua commedia, e volle Nerone dar saggio della sua voce e dell’arte sua musicale. Ricostruisco il foro, le terme,
il ginnasio, i tempii, i portici, le mura: tutta l’antica città, insomma, si presenta come in un panorama alla mia
memoria. Parecchie parti, in verità, mancano nella dipintura. O sono evanide, incerte, malamente
rappresentate; sono le scalcinature in un vecchio, ma prezioso affresco Pompeiano. Ciò nondimeno quel tanto
che rimane del quadro a far più grande il dispiacere che si prova per quello che sì è perduto; ma non vale a
menomare l’impressione, che l’animo riceve dalla sua magnificenza e dalle sue molteplici bellezze [9].
Motivi questi ampiamente condivisi da Di Giacomo nella stesura della Cronaca del teatro San Carlino
1738-1884, apparsa a fascicoli nel 1890 e l’anno dopo in un elegante volume pei tipi di Ferdinando Bideri. Gli
insegnamenti del Capasso in quest’opera, ripubblicata successivamente non più come Cronaca ma come
Storia, si uniscono con una naturale vocazione digiacomiana a considerare la storia un autunnale quanto
esclusivo giardino della memoria e della melanconia. In un intreccio di narrazione e descrizione dove domina
incontrastata una piena coscienza letteraria, Di Giacomo utilizza le fonti documentarie esclusivamente per
ricostruire ritratti ed avvenimenti con la segreta voluttà di lasciarsi prendere dal tempo passato. Il suo rifiuto
della realtà trova nel San Carlino una autentica consacrazione sia sul piano psicologico sia su quello
strettamente culturale. La epigrafica definizione datagli da Antonio Palermo pare quantomai condivisibile:
E’ un testo prezioso anche per farci intendere la sua secessione dalla realtà contemporanea, apparsagli ben
presto estranea se non ostile [10].
Nelle sale dell’Archivio di stato Di Giacomo s’inoltra ad “occhi chiusi” nelle polverose carte e ridisegna su piani
poetici ed inafferrabili quanto è ormai irrimediabilmente perduto e lontano da un presente non sempre gradito e
troppo tumultuosamente lontano dagli spazi della propria intimità. Si pensi ai versi della canzone A Capemonte
(1890) per cogliere l’infinita tenzone dei sentimenti del poeta, soffusi di umanità, con la gelida constatazione
che le stagioni della vita sono senza ritorno.
Dice sta museca, ncopp’ a nu vàlzere:
«Figliò, spassateve, ca tiempo nn’è!
Si e core e ll’uommene sentite sbattere,
cunzideratele, sentite a me!
L’anne ca passano chi po’ acchiappà?
Chi po’ trattènere la giuventù?
Si se licenzia, nun c’è che fa’,
nun torna a nascere, nun vene cchiù!» [11].
In uno stato di dormiveglia il poeta insegue i suoi fantasmi e racconta una storia “altra”, fatta di indomita
passione e di rattenuta tristezza esistenziale, orientata comunque alla ripresa di “nu mutive antico” che
mirabilmente ritrova energie arcane nel celebre testo Pianefforte ‘e notte. Il Di Giacomo storico ed erudito
interpreta nella narrazione un modo tutto proprio per dissolvere la fissità dei nomi e dei fatti immobilizzati negli
inchiostri settecenteschi, trasfigura il suo significato riconducendolo all’immaginazione e alla memoria.
Or io vorrei, per virtù nuova, socchiusi gli occhi, seguir in tutto il loro peripatetico aggirarsi per quelle vie
luminose gl’’mparruccati all’ultima moda, le dame agitanti ventaglietti istoriati, gli abati, i cadetti, i paggi e i
«volanti», una ricca lettiga che passa, una bella bionda che ride, una coppia di vecchi che si scambiano,
dalle tabacchiere d’argento, la «siviglia» odorosa. Socchiuder gli occhi e rievocar, lentamente, tutto questo
settecento incipriato e dargli moto e parola e dar suono a ogni cosa: profumo al vapore lieve che sale da tazze
di cioccolatte nella baracca de’ Repostieri, voce e sospiro a un quartetto di violini che prova, nella bottega
degl’Istromenti musicali, un minuetto suggestivo, chiacchierio sommesso allo zampillo d’una fontana, discreta
ombra di cespugli e di fronde al bacio furtivo di caldi innamorati. Vorrei che fosse, nella mite sera d’estate,
nuovo e meraviglioso il contrasto della luce con la tenebra, abbagliante quell’incendio di ceri, in cui tutta la
vivace e galante scena umana si coloriva d’un colore di rosa. Poi che nessun tempo più rifugge, come questo
tempo gentile e ricco, dall’arida e metodica erudizione che seppellisce sotto la mole de’’suoi gravi cataloghi la
musica, la poesia, l’’more, tutto il ricordo palpitante d’un secolo [12].
Come scrisse Luigi Russo “questo momento di unione misteriosa tra il fantasma del passato e l’anima
umana, tra la storia e la vita attuale ed eterna, tra il quadro pittorico-realistico e il sogno, è un momento
fuggevole ma di una grande intensità poetica” [13].
In Di Giacomo comunque si avverte una concezione degli studi storici eccentrica, personalissima ma anche
fortemente caratterizzata da un raffinatissimo bisogno di rivivere il passato o qualche suo frammento secondo
la lezione dei padri nobili della storiografia regionale.
Alla morte di Capasso, avvenuta nel 1900, Croce, proprio sulle pagine di «Napoli Nobilissima», definì don
Bartolommeo “un uomo di altri tempi: un superstite della vita regionale napoletana del Sei e Settecento” [14].
Per il pensatore di Pescasseroli però le ragioni della ricerca storica erano profondamente mutate e degli studi
capassiani in quella che era ormai la “nuova Italia” restava sostanzialmente viva la grande erudizione.
Dai suoi libri, fiumi di aurea erudizione, si apprenderà sempre; il suo metodo critico è da sperare sia
continuato; ma chi potrà rifare il sentimento che si spegne con l’uomo, quel sentimento di cui egli era l’ultimo
erede? [15].
Di Giacomo ritenne di commemorare il suo periegeta, “il grande vecchio col cuore d’un poeta”, con parole
roride di affetto e di riconoscenza, sottolineando con forza la natura intrinsecamente artistica ed originale del
suo fare storia ma anche la sua assoluta riconoscenza per i consigli ricevuti nel corso delle appassionate
ricerche sulle vicende musicali e teatrali, riversate nel corso del suo intenso itinerario biografico in tanti scritti
eruditi e di storia della civiltà napoletana. La sua bibliofilia ma anche la curiosità per i monumenti della Napoli
antica derivavano dalle frequentazioni con la cerchia di eruditi e ricercatori raccolta intorno al Capasso.
[…] tutti i napoletani a’ quali il libro o la ricerca, o la ricostruzione storica non fanno orrore sanno bene di quale
magnifico contributo sia stato continuamente largo il Capasso alle discipline storiche e proprio a quella
peculiar parte di esse che va assieme alla storia del costume e del reggimento d’un popolo [16].
Nel1886, inpiena stagione verista, il giovane Di Giacomo invece aveva dedicato al Capasso i sonetti di‘O
Fùnneco verde, raccolta che emblematicamente fornisce uno schema antropologico considerevole
dell’umanità napoletana [17].
I caratteri delle imprese condotte da Di Giacomo nel campo della erudizione non sono affatto occasionali e si
intrecciano con i motivi culturali di fondo della sua arte. Le sue collaborazioni a «Napoli Nobilissima»
scaturiscono da un intenso impegno civile, rivolto alla conservazione della memoria culturale ed artistica di
Napoli, nonché dal desiderio di proporre una rivisitazione vivente del passato. Di Giacomo sulla prima serie di
«Napoli Nobilissima» (1892-1906) scrisse complessivamente sette articoli distribuiti in dodici fascicoli [18].
Nella seconda serie, rinata per interessamento di Riccardo Ricciardi ma solo per tre annate (1920, 1921 e
1923), il poeta pubblicò due lunghi articoli di storia musicale [19].
Gli argomenti trattati da Di Giacomo nella prima «Napoli Nobilissima» furono vari ma tutti permeati di una
decisa connotazione erudita e letteraria: Le chiese di Napoli – S. Maria del Carmine Maggiore e S. Eligio al
Mercato – costituirono l’oggetto dei primi articoli apparsi nel 1892 [20]. In questi scritti Di Giacomo si presenta
fedele interprete di fonti manoscritte, di antiche cronache e di studi eruditi ma non trascura di esaltare quella
sua personalissima interpretazione della storia che non inventa nulla ma rivolge tutto il suo impegno ad un
passato che occorre leggere con vibrante sentimento. Forte è anche l’impegno civile teso alla denuncia contro
l’oblio e la scarsa considerazione nella quale vengono tenuti i beni artistici a Napoli, “terra di perenne conquista
e di mutazioni incessanti” [21]. Motivo quest’ultimo di una battaglia culturale sostenuta con vigore insieme con
Croce, Ceci e quanti si ritrovarono intorno alla redazione della Nobilissima [22]. Le sferzanti polemiche e le
puntuali indagini storiche costituirono la natura omogenea di una operazione culturale di grande significato
civile. Croce e Di Giacomo, reduci da una distinta quanto accanita e competitiva ricerca sulla storia dei teatri
napoletani – nel 1891 avevano pubblicato rispettivamente I teatri di Napoli e Cronaca del teatro San Carlino -,
furono gli artefici e le guide di questo impegnativo programma [23]. Nella presentazione ai lettori della
Nobilissima la redazione firmò un editoriale, scritto da Di Giacomo, nel quale ribadiva l’urgenza di documentare
il più possibile la storia patria in quanto le testimonianze delle epoche passate stavano per essere sacrificato
alle nuove esigenze edilizie ed urbanistiche. Gli articoli della rivista e le pubblicazioni derivate da questo lavoro
erano destinate in tempi purtroppo brevissimi a costituire una specie di repertorio della memoria di cose e
luoghi destinati alla distruzione.
[…] di qui a tre o quattro anni, quando pur di molte cose che vi si leggeranno non più nulla di vivo sarà rimasto,
se non il ricordo e forse, anco, il rimpianto [24].
Da questi convincimenti deriva la decisa posizione critica assunta dai redattori della Nobilissima in particolare
contro l’amministrazione comunale della città. Nella terza e ultima puntata del suo articolo dedicato alla chiesa
di Santa Maria del Carmine Maggiore Di Giacomo non esitò a sferzare con asprezza il comportamento delle
autorità preposte alla difesa di un monumento particolarmente ricco di storia e di arte [25]. Anche nel più breve
articolo dedicato a S. Eligio al Mercato, oggetto anche di uno scritto di Croce apparso nello stesso numero della
Nobilissima, non esita a condannare gli “empi iconoclasti” e quanti con criteri del tutto errati avevano provveduto
al suo restauro [26]. Nell’intervento sulla vendita ad un privato dello storico palazzo Dognanna da parte del
demanio pubblico Di Giacomo non risparmiò una serrata critica al modo di tutelare i beni artistici e
monumentali della città, coinvolta in un confuso ed affannoso processo di modernità [27]. Oramai “il gas
acetilene e il Bar delle cinque fate” venivano sovrapponendosi senza riguardi alle testimonianze della civiltà
culturale ed artistica napoletana.
Vi sono monumenti nazionali, per esempio la chiesa di S. Pietro a Majella, che da venti anni rimangono nel più
indecoroso abbandono. Sulle mura degli altri si attaccano i manifesti del San Ferdinando e di Watry. Uno dei
più sontuosi palazzi napoletani, quello di Maddaloni, ne è letteralmente coperto. Sugli obelischi cresce
l’erbaccia. L’arco di Alfonso d’Aragona va sfasciandosi […] [28].
In tutti i suoi interventi Di Giacomo cercò di servirsi di materiale illustrativo raro costituito da disegni, mappe,
ritratti e fotografie, fornitegli talvolta dagli amici il marchese di Montemayor e Ludovico dela Villesur Yllon,
raffinato cultore quest’ultimo di storia napoletana ed attivissimo collaboratore sia di «Napoli Nobilissima, su
cui scrisse oltre quaranta articoli sui monumenti storici cittadini, sia dell’ «Archivio storico per le provincie
napoletane», autorevole organo della Società napoletana di storia patria [29].
Negli anni Novanta Di Giacomo, nonostante una larga collaborazione giornalistica, non trascurò la sua attività di
poeta e di narratore così come non evitò alcuni contrasti con gli stessi colleghi della Nobilissima ed in
particolare con Croce e Giuseppe Ceci, amministratore quest’ultimo della rivista nonché sua attivissima firma
[30]. Già nel dicembre del ’92 egli voleva dimettersi dalla redazione ed anche in seguito non ebbe rapporti del
tutto sereni con taluni collaboratori [31].
Comunque furono propri i suoi molteplici interessi eruditi e la conoscenza di aneddoti ed avvenimenti del
passato a spingerlo sempre più verso la creazione di uno spazio letterario nel quale trovava ampia ospitalità la
poesia. Questo suo atteggiamento anche se gli fruttò molti consensi tra gli appassionati di cose napoletane, fu
benevolmente non condiviso dagli storici di professione. In occasione della pubblicazione del bel volume
digiacomiano La prostituzione in Napoli nei secoli XV, XVI e XVII (Napoli, Marghieri, 1899), frutto di lunghe
esplorazioni in archivi e biblioteche pubbliche e private, Croce lo recensì con affetto sul «Corriere di Napoli»
del 21 ottobre 1899 ma non gli risparmiò una critica di fondo: l’opera restava interessante sul piano narrativo
ma non proprio su quello storico. Le ragioni erano tutte rintracciabili nella personalità del poeta, “temperamento
di lirico e di sognatore”, interessato ad una riproduzione poetica del passato e a fare del suo libro non una
prova di erudizione ma “un sogno d’arte” [32]. La risposta alle considerazioni crociane non tardò a giungere;
solo qualche giorno dopo, il 6 novembre, sempre sul «Corriere di Napoli», Di Giacomo scrisse l’articolo Arte
e storia, una vera e propria dichiarazione di metodo e soprattutto un manifesto del suo concetto di fantasia
contrapposto desanctisianamente all’invenzione. Per il poeta i documenti, parte comunque fondamentale di un
serio studio storico-erudito, offrono solo ricerche al bromuro ma non rendono la “psiche dell’epoca” che solo le
rievocazioni d’ambiente, di fronte alle quali gli “storici arricciano il naso”, hanno il vigore di mostrare. D’altronde
già ne La storia della prostituzione Di Giacomo in contrasto con il punto di vista del Faraglia, storico
eruditissimo della Napoli durazzesca e suo incondizionato laudatore, aveva sostenuto che di quei tempi
“sarebbe vana impresa ricercare la psiche: le virtù ed i vizii antichi, nella loro varia forma peculiare, i documenti
scritti non ci renderanno mai noti” [33]. Di Giacomo continuò i suoi studi eruditi anche nel corso del nuovo
secolo e non abbandonò mai la generosa idea di far rivivere le epoche passate e i personaggi a lui più cari;
uno di questi fu in assoluto Giacomo Casanova, “un nome che ha affaccendato di immagini tenere e
paesistiche la mente del nostro poeta” [34].
Emblematicamente i versi di Voce d’ammore antiche (1919), dedicati alla mitica taverna del Cerriglio, – ricordata
ampiamente, tra l’altro, sia dal Basile nella egloga Talia o vero lo Cerriglio sia da Giambattista Della Porta ne
La Tabernaria-, svelano i sedimenti storico-letterari di u