La pittura del cinquecento. Conferenza di Stefano di Mieri nella Biblioteca di Piano di Sorrento. lucioesposito
Stasera giovedì 8 novembre 2012 ore 19,00 conferenza di Stefano de Mieri : ” Aspetti della pittura del tardo ‘500 e del primo ‘600 in Costiera Sorrentina ” Centro Culturale Comunale a Piano di Sorrento.
Stefano de Mieri si ha svolto tesi di dottorando presso la Federico II con il Prof Gasparri e la Prof Santucci, su Girolamo Imperato e problemi tardo cinquecenteschi della pittura napoletana.
La sua tesi è fruibile al sito : http://www.fedoa.unina.it/805/1/Tesi_De_Mieri.pdf, Di seguito ne pubblichiamo uno stralcio dedicato alla penisola sorrentina. L’università delle tre età di Piano di Sorrento seguirà la conferenza con tra le mani copia della tesi del Di Mieri.
LA PIETÀ DI SANTA CROCE A TERMINI (MASSALUBRENSE)
Perduti gli affreschi Poderico, come pure le altre opere documentate agli anni 1576-77, non
rimane che considerare i lavori riconosciuti dalla critica al periodo più antico dell’Imparato.
Prima di passare all’analisi di questi dipinti, propongo di ricondurre all’esiguo catalogo giovanile
del maestro la notevole Pietà su rame della chiesa di Santa Croce nel casale di Termini [fig. 10],
presso Massalubrense, “così detto per l’altezza del loco, dal quale si vede l’uno e l’altro mare, quasi
termine del Golfo di Napoli e di quello di Salerno”.215 Finora sfuggita agli studi, la pala è quanto
rimane del più antico arredo dell’edificio, documentato sin dal tardo Quattrocento ma ricostruito
nelle forme attuali, un’angusta navata con altari laterali, nel corso del primo Seicento. Le visite
pastorali dell’antica diocesi di Massalubrense, a partire da quella di Monsignor Nepita del 1685,
riferirono curiosamente il dipinto a Massimo Stanzione.216
La composizione rielabora il ben noto disegno di Michelangelo conservato all’Isabella Stewart
Gardner Museum di Boston, mediato da copie pittoriche o da interpretazioni a stampa come
quelle del Bonasone e del Beatrizet.217 Tale invenzione ebbe una certa fortuna in ambito
napoletano, come documenta la copia eseguita, forse nel corso degli anni sessanta, da Giovan
Bernardo Lama per la cappella degli Amodio in San Giovanni Maggiore [fig. 11], e lì ricordata a
214 Il 19 febbraio del 1579 Zannoli Perino “bolognese” insieme a Battista Santillo di Napoli convennero coi
governatori dell’Arciconfraternita dello Spirito Santo in Napoli “di pintare le doi facciate della nave della
detta chiesa da l’uno cornicione all’altro sopra le cappelle conforme al disegno fatto per lo magnifico
Giovan Bernardo della Lama […] et questo per tutta la mità del mese di maggio […]. Nella quale opera essi
pittori in solidum prometteno lavorare di continuo con quattro mastri. Et questo per preczo et ad ragione
de ducati otto per ciascuna fenestra tanto della finestra sfondata quanto del loco dove venerà l’Apostolo”.
Cfr. G. Filangieri, Documenti, cit., VI, p. 532 (il contratto fu rogato dal notaio Cristoforo Cerlone). Ho
rintracciato due inedite polizze di banco riguardanti questo stesso ciclo di affreschi: 10 aprile 1579 “A li
signori mastri delo Spirito Santo ducati trenta, et per loro a Battista Santillo e Perrino Zannoli pittori
dissero a compimento de ducati cento et duie in conto de la pittura fanno in detta ecclesia”; 18 aprile 1579
“A li signori mastri del Spirito Santo ducati vinti, et per loro a mastro Battista Santillo et Perrino Zandoli
pittore dissero a compimento de ducati cento trenta in conto de la pittura fanno in quella ecclesia, et per
detto Battista a Tholomeo de Rinaldo” (ASN, BA, Ravaschieri, 79).
215 G. B. Persico, Descrittione della città di Massa Lubrense, Napoli 1644, p. 39.
216 R. Filangieri di Candida, Storia di Massalubrense, Napoli 1910, p. 437. Finora non ho potuto controllare
le Visite pastorali di Massalubrense a causa del riordino in corso nell’archivio diocesano di Sorrento, dove
attualmente sono conservate.
217 Sul disegno di Michelangelo e sulle numerose repliche pittoriche e a stampa cfr. C. De Tolnay,
Michelangelo, The final period last judgment frescos of the Pauline Chapel last Pietàs, Princeton, 1971, V, pp. 61-
64, figg. 159, 340-358. Sulle stampe del Bonasone e del Beatrizet si veda E. Borea, Stampe da modelli fiorentini
del Cinquecento, in Il primato del disegno, Firenze 1980, p. 269 e The illustrated Bartsch, Italian masters of the
sixteenth century, New York 1995, XXVIII, pp. 271-272.
partire dal D’Engenio.218 Il rame massese mostra di allontanarsi dal prototipo che appare
notevolmente semplificato, avendo il pittore ripreso soltanto il gruppo centrale, privo del motivo
degli angeli impegnati nel sorreggere le braccia del Cristo, presente invece nella replica fedele del
Lama. Non appare difficoltoso riconoscere nel Cristo una tipologia affine all’analoga figura della
Pietà con i santi Nicola ed Eusebio appartenuta alla chiesa napoletana di Santa Patrizia [fig. 12],
mentre il languore espressivo della Madonna palesa un aspetto già tipico dell’Imparato. Meglio di
qualsiasi altro dipinto imparatesco, la Pietà di Termini manifesta legami stringenti con la cultura
artistica di Giovan Bernardo Lama, per una certa durezza del modellato e per il tono
eccessivamente patetico e lacrimevole, che rivela una chiara familiarità con i suoi celebri
Compianti, in particolare quello della chiesa napoletana di San Giacomo degli Spagnoli [fig. 8].
Ma il dipinto può essere fruttuosamente confrontato con le simili rappresentazioni, altrettanto
drammatiche, di Silvestro Buono: mi riferisco a pale d’altare databili agli anni settanta, in special
modo alla Deposizione della congrega dei Santi Marco e Andrea a Capuana e alla Pietà coi santi
Bonaventura e Francesco del Museo di Capodimonte [fig. 9].219 Anche l’utilizzo di colori freddi ma
intensi e la maniera seguita nel lumeggiare i panneggi denunciano analogie con lo stile del Buono.
L’Imparato mostra di aver assimilato una sensibilità tutta fiamminga nel modo di levigare i corpi,
modellati come nell’avorio, nell’analisi sottile e pungente del magnifico profilo di Cristo,
nell’indagine dei singoli elementi attraverso una luce algida; si osservi ad esempio il legno della
croce del quale restituisce minutamente la trama delle venature, un dettaglio realistico da “arte
senza tempo”. L’effetto finale è quello di una pittura che, non molto diversamente dalle contrite
composizioni del Lama, riesce ad assecondare le istanze devozionali della chiesa post-tridentina,
grazie alla capacità di trasmettere un profondo e toccante sentimento religioso.
Il rame di Termini manifesta una spiccata cura per il paesaggio, di cui l’Imparato fu uno dei più
alti interpreti in ambito partenopeo. Un cielo cupo e funereo, dove si addensano nuvole disposte
concentricamente intorno allo squarcio di luce soprannaturale, incombe sul Golgota, immaginato
ai piedi di un dirupo di rocce scheggiate dalle quali spunta la vegetazione spontanea; al lato
opposto si ergono un rudere dell’antichità classica e una Gerusalemme celeste, pietrificata e
incantata. La tipologia del paesaggio, sebbene già molto personale, trova i suoi confronti più
diretti negli sfondi “romanistici” dell’Assunta di San Pietro in Vinculis [figg. 1, 4], della Pietà di
Capodimonte [fig. 9], del Compianto dei Santi Marco e Andrea a Capuana di Silvestro Buono. È
chiaro l’interesse condiviso con il collega napoletano per la pittura fiamminga, maturato quasi
certamente sin dagli anni sessanta a contatto con le opere di diversi artisti d’oltralpe affluiti nel
Viceregno come Jan van Calcar e, forse, con la frequentazione e la conoscenza diretta di
personalità quali Paolo Scheffer, Hendrick van der Broeck, Cornelis Smet, e chissà quanti altri
maestri nordici, in grado di far maturare esiti così profondamente romanistici e parafiamminghi
nei giovani pittori meridionali.220 Questi artisti costituirono una vera e propria alternativa al
manierismo tosco-romano rappresentato da Marco Pino, ristabilitosi a Napoli dal 1570 dopo un
secondo soggiorno romano,221 e verso il quale, in una fase più avanzata della sua attività,
l’Imparato non avrebbe mancato di rivolgere la sua attenzione.
Nel panorama della pittura napoletana del tardo Cinquecento il quadro massese presenta una
peculiarità, quella di essere realizzato su rame, un supporto piuttosto raro per opere destinate agli
218 La proposta di identificare il dipinto, attualmente conservato nella chiesa del Buonconsiglio di
Capodimonte, con quello della cappella Amodio è di A. Zezza, Giovan Bernardo Lama, cit., pp. 5, 26 nota
19. Il dipinto fu assegnato al Lama da P. Leone de Castris, La pittura del Cinquecento nelll’Italia meridionale,
cit., p. 513 nota 18; Idem, Pittura del Cinquecento a Napoli. 1540-1573, cit., pp. 250-259, 279 nota 48.
Ancora nel corso del terzo decennio del secolo successivo, a Napoli il medesimo modello fu ripreso da
Giovan Bernardino Azzolino nella tela attualmente esposta nel Museo Diocesano di Vallo della Lucania (P.
Leone de Castris, Pittura del Cinquecento a Napoli. 1573-1606, cit., p. 319 nota 43, fig. a p. 314).
219 Sul dipinto di Capodimonte cfr. F. Bologna, Roviale Spagnuolo, cit., p. 73 nota 23; per quest’opera, oltre
alla bibliografia citata nelle note precedenti, cfr. P. Leone de Castris, Museo Nazionale di Capodimonte. Dipinti
dal XIII al XVI secolo. Le collezioni borboniche e post-unitarie, Napoli 1998, pp. 116-117. Sulla tavola della
confraternita dei Santi Marco e Andrea a Capuana vedi supra.
220 Sui fiamminghi in Italia meridionale cfr. quanto detto nelle pagine precedenti.
221 Per l’ultimo periodo napoletano di Marco Pino cfr. A. Zezza, Marco Pino, cit., pp. 193-257.
altari,222 essendo generalmente utilizzato per quadri di piccolo formato di carattere privato. La
realizzazione di dipinti su rame, che consente di esaltare la preziosità dei colori, non appare isolata
nella produzione dell’Imparato: penso al San Giovanni in Patmos della Casa della Serva di Dio a
Napoli [fig. 67] e all’Immacolata passata diversi anni fa sul mercato antiquariale.223 La scelta
sembrerebbe provare ulteriormente i profondi legami con gli artisti fiamminghi, che dovettero
diffondere l’uso di quel supporto nel contesto partenopeo.
In Santa Croce di Termini, nel 1578, venne fondato l’altare di patronato della famiglia Amitrano,
sul quale fu collocato nello stesso anno un quadro raffigurante la Vergine fra i santi Antonio di
Padova e Michele Arcangelo.224 Tale circostanza potrebbe indicare un possibile terminus ante quem di
una fase in cui la chiesa, elevata a parrocchia sin dal 1566, si dotò di nuovi arredi sacri. La pala
imparatesca, collocata sull’altare maggiore, potrebbe essere stata eseguita intorno al 1575,
datazione confermata dalle somiglianze che corrono con la Pietà di Santa Patrizia, una tavola che
difficilmente sarà stata realizzata oltre la seconda metà degli anni settanta. Un’altra testimonianza
indiretta per l’antichità dell’opera nel percorso di Girolamo proviene dalla presenza nella stessa
area geografica di lavori giovanili di Silvestro Buono: la Madonna del Rosario nella chiesa
dell’Annunziata a Massa Lubrense (1574) [fig. 5] e la Madonna col Bambino fra i santi Giovanni
Battista e Giovanni Evangelista della cattedrale di Sorrento (1575) [fig. 6]. La diffusione di tali
dipinti nel territorio è senz’altro sintomatica dell’apprezzamento locale per prodotti appartenenti
ad un medesimo filone culturale e, conseguentemente, per artisti provenienti dallo stesso ambito.
In particolare, Girolamo stabilì un rapporto privilegiato con la città di Massalubrense, dove
approdarono diversi suoi lavori: nel 1588 vi giunse una dispersa Pietà per la cattedrale di Santa
Maria delle Grazie, nel 1592 il Battesimo di Cristo per la cappella Pisano nella stessa chiesa [fig. 75]
e nel 1599 una perduta cona destinata a Santa Maria della Sanità, eseguita assieme a
Giovann’Angelo D’Amato.225