CHI SONO I GIOVANI DI OGGI? COSA PENSANO? QUALI LE LORO SPERANZE? I LORO SOGNI E DESIDERI?
CHI SONO I GIOVANI DI OGGI? COSA PENSANO? QUALI LE LORO SPERANZE? I LORO SOGNI E DESIDERI?
Al benessere della società presente si attribuisce la responsabilità di alcuni difetti nei comportamenti giovanili.
Il ben d’essere è una sensazione individuale, un vissuto e fa dunque parte dei fenomeni umani, non facilmente misurabili. E’ contrapposto al mal -d’essere. Questi termini, se vengono applicati non ai singoli ma alla società, si prestano a molti fraintendimenti. Chi ha vissuto il periodo bellico, il dopoguerra, e fa un confronto con gli anni Novanta, potrà affermare che allora dominava il malessere e che ora al contrario, il tempo si caratterizza per il benessere. In questo caso compie un paragone tra due vissuti o meglio tra la somma di tanti momenti riferiti a due esperienze. Se manca uno dei termini di confronto, com’è per il caso di un giovane d’oggi, il giudizio potrebbe cambiare completamente: ha un significato relativo. Il telefono è nella mia esperienza un prezioso strumento che, con la sua introduzione, ha semplificato la comunicazione, ma chi è nato con il telefono non può fare alcun confronto e lo vive come l’ossigeno dell’aria: un elemento della natura. Non è possibile far considerare l’alimentazione come benessere a chi non ha idea, e soprattutto esperienza, di che cosa voglia dire fame non sedata. La valutazione potrebbe cambiare completamente se si basasse non sulla scomparsa della fame alimentare, ma su quella attuale da oggetti, forse ancor più grave, poiché non ha un controllo biologico (la sazietà) ma è illimitata.
Da queste premesse deriva l’affermazione ”società del benessere” che si pone su due piani diversissimi se valutata da un adulto o da un giovane.
L’affermazione secondo cui i giovani d’oggi hanno tutto, sta a indicare che hanno ciò che mancava nel passato, ma non tiene conto di cosa manca oggi rispetto ai loro desideri. Ogni momento storico ha “cose” che prima mancavano, ma manca di altre e persino di alcune che si potevano facilmente godere nel passato.
Non ho alcuna nostalgia per il passato, ma è certo che il piacere di una bambola di pezza per una ragazza era di molto superiore a quello procurato da una bambola automatica e persino computerizzata di oggi che impedisce ogni creatività. Per fortuna presto si romperà ed assomiglierà di più a quelle povere di un tempo.
Spesso si danno oggetti invece di espressioni d’affetto. E’ il caso dell’abbraccio, eccezionale nei genitori d’oggi e popolare quando si era più ricchi di sentimento che di “cose”.
Insomma non sono convinto che la generazione attuale di giovani debba essere considerata straordinariamente fortunata per tutto quanto ha a disposizione. Molti loro desideri rimangono insoddisfatti. Occorre educare al desiderio e, dunque, esperimentare la mancanza. Imparare a desiderare. Si è sommersi dai bisogni guidati dagli spot e dalla logica dei consumi. Domina nel mondo dei giovani d’oggi la insoddisfazione, la frustrazione .Penso sempre al confronto tra un oggetto e un sentimento. I sentimenti hanno bisogno di sincerità, il resto si fonda solo su un buon portafoglio che può riempirsi anche in maniera illecita. E’ tempo di dare affetti e di considerare su questo parametro la condizione giovanile. Ci sono giovani che spesso hanno consumato il proprio padre e la propria madre, come fossero oggetti da usa e getta, e così rimangono soli, titani del nulla, eroi che hanno dimostrato coraggio uccidendo se stessi. Che importa se sono addobbati di griffe famose!
Hanno una moto potente e un padre impotente e magari ladro. Vanno al mare con i soldi forse anche provenienti dal furto.
So che le fobie ossessive sono in aumento, così pure il comportamento ossessivo. La fatica dell’ossessività è più grande di qualsiasi stress fisico. La scenata per un abito può mostrare l’angoscia esistenziale, la paura di essere inadeguati. Le richieste vanno decodificate, come spesso le parole: si può offendere per richiedere una manifestazione d’affetto.
Mi viene alla memoria quando negli anni Settanta fui inviato in Costa d’Avorio. Notai che il comportamento dei giovani che continuavano a vivere nei villaggi tradizionali era diverso da chi si era spostato nei nuovi centri, simili alle metropoli dell’Occidente. Un confronto tra un luogo privo di benessere e un altro in cui era entrata la ricchezza. Confrontando queste due popolazioni giovanili, l’abisso era ancora più profondo: nel villaggio vivevano nudi, dediti alla caccia e ai riti magici; nella città erano vestiti con blue jeans . magliette dipinte e colorate, potevano andare al bar, nei cinematografi e persino nelle discoteche. La sera trovavano prostitute, sostanze stupefacenti. Quante cose mancavano ai giovani giunti ad Abidjan per una ricchezza che in realtà si riduceva a una inesauribile richiesta di denaro per comprare ciò che ora era diventato indispensabile, mentre fino a qualche anno prima era inimmaginabile. I giovani nella città avevano conosciuto l’ansia, l’impotenza e persino la follia.
Un altro riferimento in tema di benessere mi giunse a Mosca tra la fine degli anno Ottanta nel corso della trasparenza e della democratizzazione attuali. Sono arrivati oggetti d’ogni tipo, persino Ferrari, boutique esclusive, Per le strade si incontrano ricchi ma anche poveri che chiedono elemosina. E’ arrivata la droga, la criminalità, la prostituzione organizzata. Mettendo vicini i giovani di allora, senza “nulla” con quelli di adesso con “tanto”, non riesco a capire dove si situi il benessere. Sono certamente stati deprivati di “cose” che nessuno considerava perché erano parte della tradizione.
Lo sforzo fisico da lavoro è mutato negli ultimi anni e anche le occupazioni “pesanti” sono state alleggerite da tecniche che hanno sostituito e ridicolizzato la forza muscolare dell’uomo. Contemporaneamente si osserva un aumento della fatica fisica per hobby, footing, jogging, mountain bike, ginnastica.
Cosa dire del disagio dei giovani, che è una caratteristica dell’esistenza, una condizione di malessere che fa sentire inadatti in certe situazioni. Esso si esprime in molti modi: Talora si hanno espressioni fisiche , come se il proprio corpo non sapesse adattarsi a certe situazioni, al caldo (con la fatica del respiro), all’afa, una sudorazione profusa, stanchezza, Insomma si notano modificazioni del corpo in rapporto a modificazione di parametri ambientali, o per lo meno è necessario un periodo di adattamento prima di superare il disagio fisico. Le espressioni del disagio sono, però, per lo più psicologiche e il corpo in questo caso ne risente, ma indirettamente (somatizzazioni). Un disagio si può esprimere sotto forma di enterite o di allergia, che fino a pochi anni fa erano riferite a cause organiche, per l’intervento di batteri. E’ invece la condizione depressiva a diminuire le difese immunitarie e permettere a germi presenti nell’organismo, di aumentare la loro “virulenza”. Le maschere somatiche possono essere: un rossore al viso, una tensione muscolare, sensazione di dolore allo stomaco, bocca asciutta, stimolo impellente di defecare o mingere. Sono moltissimi i sintomi somatici di un disagio. E ancora, l’agitazione, l’impossibilità di organizzare i propri pensieri e di parlare, l’ansia, l’angoscia, l’angustia di vivere che si accompagna a nodo alla gola.
Il grado della devianza dipende anche dalla tolleranza della gente e dalla cultura che comportano reazioni differenti allo stesso comportamento. Gli inglesi sono molto tolleranti alla depressione, gli italiani più alla iperattività. Fino a poco tempo fa nel nostro Paese la depressione veniva nascosta, oggi molti la raccontano come si trattasse di un merito.
Ricordo il periodo in cui ho vissuto negli Stati Uniti, prima a New York e poi a Washington, luoghi del liberalismo puro con uomini di successo vicino alla più cruda povertà: nessuno sembrava accorgersene, nascosta da barriere invisibili, da mura altissime anche se mai costruite. Qualche volta in strada le case di un lato appartengono alla miseria, dell’altro alla ricchezza. In America ho visto la più grande ricchezza e la profonda povertà. Mancava quel senso di comprensione della povertà dell’India, dove il povero è, comunque, un uomo in redenzione e appartiene a Dio. In America, è una colpa, segno dell’incapacità del singolo a non usare il liberalismo capitalistico per costruire la propria fortuna: un inetto che non sa di avere nello zaino il bastone di maresciallo e lo usa solo per sostenersi. Conosco molti cretini, figli di potenti che con varie strategie sconfiggono giovani intelligenti, ma meno abbienti: gli idioti del successo. Sono impietrito di fronte alle sopraffazioni, ai concorsi pubblici espletati nel pieno rigore delle formalità burocratiche e guidati per far vincere i raccomandati.
Vi è un aspetto che sempre di più mi colpisce: la morte della piccola storia personale che significa cancellare dalla esistenza delle famiglie e del mondo giovanile i vecchi e attraverso di loro la memoria storica vera, quella che coinvolge direttamente anche i giovani. Mi pare che si debba fare un salvataggio urgente perché “uccidendo” i nonni , si amputa parte non solo del passato, ma del futuro del mondo giovanile.
E’ divenuto sempre più evidente che il giovane non è il solo elemento in metamorfosi della società, ma che il cambiamento coinvolge anche altre età. Si è giunti anzi alla convinzione che assieme al giovane che muta deve mutare anche la famiglia. Una sintonia necessaria a capire lo stesso mutamento dei giovani.
Le caratteristiche somatiche e alcuni tratti del carattere di un figlio rimandano a quelli del padre e o della madre. Sono uno stigma dell’appartenenza alla famiglia, segni di riconoscimento.
Nella storia evolutiva i caratteri somatici finiscono per rappresentare una carta di identità e quindi identificare il singolo all’interno della famiglia a cui appartiene.
Assieme alla storia biologica di linee familiari si deve aggiungere una storia sociale, non segnata in nessun tratto del nostro viso o in nessuna caratteristica somatica, parte di ciò che chiamiamo cultura e quindi della storia di ciascuno, acquista nel corso della propria esistenza.
I figli ignorano la storia dei padri e quella dei nonni. Una sorta di tabù di ciò che nella famiglia è accaduto. di cecità come non volessimo vedere il nostro colore degli occhi, identico a quello del padre o cogliere quel portamento che richiama quello del nonno o della madre.
La voglia di dimenticare e di non far sapere. Una storia da non raccontare.
E così i figli non sanno nulla della loro storia culturale, di questa piccola storia di famiglia.
E’ fondamentale invece essere calati nelle radici del passato, ai nonni e ai bisnonni, alle loro avventure e talora alle loro miserie. Anche la miseria fa storia e se non può brillare per il benessere, magari luccica per il coraggio, per l’onestà, magari per il dolore.
Questa dovrebbe essere la prima lezione di storia che un adolescente, ma ancora prima da bambino dovrebbe sentire raccontare. La storia va tramandata, no giudicata e tagliata, censurata.
Per gli anonimi che cercano persino di staccarsi dal padre e dalla madre, non rimane altro: un vuoto nel passato e davanti un futuro buio e percepito come drammatico, senza speranza.
La storia serve per far rivivere i morti e allora il buio di una tomba di cimitero si anima, diventa azione viva e quei personaggi dimenticati si attaccano in qualche modo a noi e sono parte di un filo che le generazioni nuove devono portare avanti, certo con il proprio stile e in perfetta libertà.
Per staccarsi dalle figure parentali e inserirsi nel gruppo dei pari età, gli adolescenti percepiscono padre e madre, ma anche ogni elemento della famiglia e persino dello spazio abitativo, come orrendi, tali cioè da doversene staccare.
I padre diventa orrendo, la madre insopportabile.
L’adolescente non si limita più a sentire il proprio corpo mutare e farsi mostro, ma mostri diventano anche gli oggetti e le persone intorno, a partire dai propri padri. A ciò i genitori devono reagire non con la provocazione, per evitare che la provocazione dell’adolescente lo porti a convincersi che padre e madre sono veramente nemici da battere e magari da fuggire.
L’ambivalenza è un contrasto tra “desideri” Tra il bisogno di “combattere” padre e madre e bisogno di sentirsene protetti e quindi di averli dalla propria parte, nonostante un attimo prima si sia fatto di tutto per sostenere la loro inutilità e magari dannosità.
Di fronte a questo comportamento, occorre che i genitori lascino da parte la ragione e seguano i bisogni di affetto, la rassicurazione.
Alberto Del Grosso
Giornalista Garante del Lettore
di Positanonews.
Alcuni passi tratti dal libro “Giovani “ di Vittorino Andreoli e adattati all’articolo.