LETTERA DI EDUARDO DE FILIPPO INVIATA AL MINISTRO DELLO SPETTACOLO L’1 OTTOBRE 1959
LETTERA DI EDUARDO DE FILIPPO INVIATA AL MINISTRO DELLO SPETTACOLO L’1 OTTOBRE 1959
Da: Paese Sera, 1 ottobre 1959
Onorevole Ministro,
mi consenta di parlarLe del teatro italiano. Personalmente potrei risparmiarLe questo discorso. Io ho superato abbastanza bene i venti anni di isolamento e di ostracismo datimi dallo stesso Dicastero che lei dirige da poche settimane, riuscendo a far applaudire in Patria e a far conoscere all’estero il mio teatro. Ma non ci si può sentire paghi di una posizione di privilegio in mezzo alla terra bruciata, di avere una bella casa in mezzo alle macerie. Nella società moderna le torri d’avorio possono trovare posto solo nei musei perché a lungo andare ogni possibilità di comunicazione fra l’arte e l’umanità cessa se si affievolisce fino a scomparire la consuetudine degli uomini di nutrirsi, oltre che di fettuccine, di competizioni sportive, di canzoni e di sermoni, anche delle emozioni, degli insegnamenti e del divertimento che l’arte può offrire.
Mi creda, onorevole Ministro, che è con sgomento che io penso al vuoto che di anno in anno si va facendo intorno al teatro in Italia e alle decine di migliaia di spettatori italiani che – come le statistiche dimostrano inequivocabilmente – ogni anno si staccano per sempre dal teatro senza che altri prendano il loro posto; che è con angoscia che penso, guardandomi intorno con l’occhio clinico del teatrante incallito, a tutto quello che si va facendo sistematicamente per raggiungere l’ormai incombente anno zero del teatro italiano, e a tutto quello che non si fa e che si dovrebbe fare per allontanare la minaccia.
Ma cercherò di accennare subito alle questioni di fondo: prima fra tutte la posizione dello Stato nei confronti del teatro. Posizione, Onorevole, fra le più ambigue, non solo assai somigliante alla posizione del defunto stato fascista, ma anche assai peggiore. Questo Stato, rispetto al teatro, vorrebbe essere nel medesimo tempo uno Stato mecenate e uno Stato liberale. In realtà è soltanto uno Stato tirannico, che per sembrare mecenatesco e liberale non esita a fare il più largo uso dell’ipocrisia e della corruzione. Ma piuttosto che utilizzarle come ha fatto la odiosa macchina fabbricata dal fascismo era meglio se rifiutava qualsiasi ingerenza, lasciando ai teatranti il compito di curare con i loro sforzi il malato.
Ma, come con il favoreggiamento statale di persone incredibili le quali non possono sfornare niente altro che film incredibili (film, cioè, che finiscono sempre per centrare questo obiettivo: concimare la stupidità e la volgarità, abbassare il livello intellettuale e spirituale della popolazione, deprimere i costumi) così, con la creazione dall’alto di una ristretta clientela privilegiata e parassitaria – privati individui ed enti di comodo – che dovrebbe nascondere il dispotismo sotto la patina della libera iniziativa, si è ottenuto un teatro di evasione (testi classici, copioni importati e, in bassissima percentuale, goffe rimasticature del teatro boulevardier) altrettanto gradito. Ma gradito a chi? Non certo al pubblico che reagisce disertando i teatri. Si tratta dunque di un teatro, o di un pseudo teatro, gradito alla ristrettissima cerchia dei beneficati, oltre che agli sprovveduti benefattori. […]
Non si può dire che in questo dopoguerra non si sia marciato costantemente in questa direzione, incoraggiando tutte le forme di dilettantismo estetizzante, della esterofilia provinciale, del pompierismo in guanti gialli gabbati per progresso, modernità, cosmopolitismo e cultura; o aiutando l’analfabetismo “impegnato” a far danzare il cadavere putrefatto del teatro borghese della fine del secolo scorso e degli inizi del nostro.
Come Lei vede, onorevole Ministro, io non sto parlando di me e del mio teatro. Un pubblico, in qualsiasi città o villaggio d’Italia, oltre che – come autore – in molte città del mondo, io l’ho conservato. Ma io sono autore del 95% e il regista e l’interprete di tutto il mio repertorio. Io ho saputo resistere alle lusinghe delle mode e alle imposizione dei modisti: o mangiar questa minestra o saltar quella finestra. Io parlo per quelli che, essendo alla mercè di chi ha il coltello per il manico non sono nelle condizioni di aprire bocca. Ma soprattutto parlo per il Teatro.
Bisognava e bisogna dire finalmente senza peli sulla lingua quello che, dovunque esista ancora una preoccupazione e una speranza per le sorti del nostro teatro, si va ripetendo ormai da più di dieci anni, e cioè che i proconsoli e i parassiti di tutti i generi che formano la barriera innalzata dallo Stato impresario fra se stesso e il teatro potenziale, sia che agiscano come private persone o come esponenti di enti di comodo, sono tutti, indistintamente, degli estranei al teatro, così come sono estranei al teatro gli “esperti” dei quali sia la Direzione generale dello spettacolo che gli enti suoi satelliti si servono per gettare polvere negli occhi. I primi non hanno alcuna qualifica, anzi, spesso hanno non pochi titoli specifici che li squalificano. Gli altri (gli “esperti”) o sono gestori di teatri, cioè i primi e diretti nemici di quel teatro d’arte al quale in teoria sarebbero riservate e nello spirito e nella lettera le cosiddette provvidenze, o critici, cioè giornalisti: e non si vede proprio come un giornalista possa essere considerato un “esperto”! Gli esperti servono da comodi paraventi della politica a volte personalissima e a volte interprete della “volontà superiore”.
Ripeto, io sono ormai al termine della mia carriera, sono contento di quello che, sia pure con tanti sacrifici e tante amarezze, ho realizzato, non ho bisogno di niente anche se la mia situazione economica non è delle più floride (invece di farmi ville e yacht ho voluto ricostruire un celebre teatro distrutto dalla guerra, e per pagare questo “lusso” da molti anni i miei diritti di autore sono bloccati a favore delle banche), non chiedo niente per me. […]
La mia lettera per ora potrebbe terminare qui. Con una esortazione a strappare la macchina in funzione con il deliberato proposito di ammazzare il teatro dalle mani alle quali è stata affidata e ad affidarla a chi di ragione, dopo di che si potrà valutare se davvero la motorizzazione, lo sport, la radio e la televisione siano gli elementi che danneggiano il teatro e in che misura. Ma il mio sarebbe un acido sfogo e si presterebbe a molte illazioni se non sentissi di dover indicare con maggiore precisione le cause de mali che affliggono il nostro teatro e i rimedi dei quali il moribondo ha urgente bisogno.
Anzitutto, i fondi che lo Stato mette a disposizione del Teatro sono insufficienti. Già più volte è stato fatto rilevare che le cosiddette e tanto strombazzate provvidenze altro non sono che una parte di ciò che lo Stato introita in tasse erariali ed IGE dal teatro. Ma il guaio peggiore non è qui. Tutti i guai, o la maggior parte di essi, risiedono nel come le cosiddette provvidenze sono elargite. Dai due ai trecento milioni annui vengono sottratti al vero teatro da macchiette locali, politici municipali, filodrammatici e semplici furbacchioni, da persone, cioè, che si autoqualificano teatranti, ma che non solo coi teatranti non hanno nulla da spartire, ma dei teatranti sono accaniti, irriducibili e spietati nemici.
Perché gli autentici teatranti non possono essere, ovviamente, i cosiddetti organizzatori, nè gli impresari professionali od estemporanei, nè i tre o quattro poveri diavoli nominati ‘esperti’ dalla burocrazia governativa, ma prima di tutto gli autori e subito dopo gli attori. Mi consenta di parlarLe di queste due categorie, fra le più osteggiate e umiliate dalla camorra teatrale imperante. In nessun paese l’autore drammatico è trattato come da noi. Si dirà che gli autori italiani ‘validi’ sono pochissimi. E come mai? Io credo che la ragione sia una sola: la condizione paradossale in cui è tenuto in Italia l’autore drammatico. E poiché la naturale posizione di un autore nel teatro è quella dominante, essi hanno cancellato questa legge naturale dando a se stessi, in qualità da improvvisati registi o critici, o, peggio, di “organizzatori”, la posizione usurpata. […]
Se dovessi incominciare oggi, se avessi bisogno degli “organizzatori”, dei “capocomici” e di quei registi che vanno – a corso forzoso – per la maggiore, non credo che me la sentieri. Credo anzi che da un pezzo avrei cambiato mestiere. Anche perché non so come potrei vivere, se è vero che gli incassi sono insufficienti – donde le ‘provvidenze’ governative delle quali tutti beneficiano, come ho già rilevato, a cominciare dagli impresari o organizzatori che dir si vogliano – e l’autore, escluso in modo assoluto dalla spartizione delle ‘integrazioni’ statali, è rimasto ancorato a una percentuale sull’incasso: la stessa percentuale di cinquant’anni fa, quando l’incasso era più che ‘sufficiente’, e di quando una commedia di successo medio aveva una lunghissima vita assicurata sia dalle compagnie triennali, sia dalle immancabili riprese, tutte cose che ora un autore non potrebbe davvero sognarsi.
Oggi il guadagno di un autore per una commedia ceduta a una compagnia di giro o a un teatro stabile non copre le spese vive. Eppure lo Stato capocomico assicura ad altre categorie, che non hanno certamente il peso che ha l’autore nel teatro, e che anzi, come già ho detto e ridetto, vi hanno un peso negativo, eccellenti condizioni di vita! […]
Si aggiungano a questo idilliaco panorama i reticolati della censura, esercitata non già alla luce del sole, e non già in base ad una legislazione che tenga conto delle libertà vigenti nei settori di gran lunga più vasti del teatro di prosa, come la stampa e persino il cinema, ma a mezzo di strizzatine d’occhi e di conciliaboli segreti fra i capocomici proconsoli e i rappresentanti della burocrazia, e come se non bastasse oggetto di furibonde campagne politiche aventi lo scopo di metterla su un piano legislativo degno del più arretrato villaggio africano; e mi si dica perché mai una persona non stupida e non meschina, in grado di scrivere per il Teatro, dovrebbe scegliere questo tipo di attività così avvilente, così poco redditizio e così pericoloso, e non darsi invece ad altre più dignitose, fruttifere e tranquille occupazioni. Tutti questi ben pasciuti signori hanno tramato e congiurato e persino urlato contro la produzione nazionale contemporanea allo scopo di ottenere dallo Stato mano libera vuoi nell’importazione diretta di opere straniere che con l’arte il più delle volte hanno ben poca parentela, vuoi nell’andare placidamente alla deriva su la comoda barca dell’antologia e delle riesumazioni. […]
E qual è la condizione degli attori? Come si può mantenere unita ed efficiente, come si può formare una classe di attori con le poche e sporadiche e brevissime scritture che ogni anno non impiegano più del 50% degli attori professionisti vecchi e nuovi? Perché mai i teatri stabili e le compagnie sovvenzionatissime non hanno l’obbligo di presentare alla Direzione dello spettacolo scritture quinquennali o almeno triennali con gli attori? Non è soltanto militando in una compagnia di lunga durata, salendo i gradini della carriera passo passo, sperimentando le proprie attitudini e le proprie qualità in vari ruoli e in vari testi, che un attore già formato può perfezionarsi o comunque dimostrare la propria efficienza e un attore nuovo formarsi? La situazione di un attore, e non solo di un attore medio, è invece quella di una continua ansia e di una assillante ricerca giorno per giorno del lavoro e del pane. Continuamente egli deve bussare a qualche porta per tirare avanti: oggi alla Radio, domani a uno stabilimento di doppiaggio, ora a un teatrino in cui si dà (per accontentare qualche tapino) un lavoro nel quale non crede nessuno, ora al favorito della Direzione dello spettacolo che ha avuto l’incarico di organizzare una tournèe, ora alla televisione, ora all’Istituto del dramma antico che prepara uno spettacolo a Ostia o a Siracusa.
Vere e proprie eccezionali fortune, le scritture stagionali. Ma anche le stagioni, che fino a qualche anno fa erano di sei mesi, adesso si sono accorciate e spesse volte non durano più di tre-quattro mesi compreso il periodo delle prove, quando già non si sia adottato il nuovissimo andazzo delle assunzioni spettacolo per spettacolo. […]
L’attore è dunque, come l’autore, alla mercè dei mandatari governativi, vale a dire di estranei e di incompetenti, di speculatori e di parassiti. Il mondo alla rovescia. Estraneo a casa sua. Ad aspettare e ad invocare la grazia dagli usurpatori delle sue prerogative. Senza il diritto di dire una parola, di esprimere un consiglio, di esporre un opinione. I denari sono quelli che lo Stato dà al teatro per il teatro, oltre a quelli che il pubblico paga per andare a teatro. E il teatro è, con l’autore, l’attore. Ma né l’autore né l’attore hanno voce in capitolo. Entrambi potrebbero salvare il teatro. Debbono assistere impotenti agli enormi episodi che ogni anno nella nostra scena di prosa formano motivo di scandalo senza tuttavia raggiungere l’effetto che di solito hanno gi scandali: di far cambiare il sistema.
Non mi stancherò mai di chiedere: chi sono questi personaggi che dominano la povera vita teatrale italiana, che occupano il posto dei medici al capezzale del morente impedendo che siano prodigate le cure opportune e togliendogli il respiro? […]
Le cose che ho scritto a Lei sono le stesse che avrei potuto pubblicare dieci o dodici anni fa, quando non ero, come sono oggi, vicino al termine della mia carriera e completamente pago di quello che ho ricevuto dal mio pubblico e da quanti hanno seguito e seguono da studiosi la mia fatica. Egoisticamente mi sarebbe convenuto di continuare a tacere. Io non amo le discussioni e le polemiche, forse perché sono abituato a fare; e non mi nascondo nemmeno che, dopo tutto, non è mai un buon affare interrompere certi sonni beati. Ma mi andavo chiedendo da tempo perché queste cose che ho scritto a Lei – che sebbene copiose potrebbero essere tante di più, e che tutti nel mondo del teatro sanno e ripetono con profonda amarezza – non vengono mai fuori nei convegni, nelle interviste, nelle inchieste, nei referendum. Non ho trovato niente altro che questa risposta: la paura. Una paura che forse io solo non avevo e non ho ragione di sentire. Ecco perché ho creduto che fosse mio dovere rompere il cerchio di silenzio e di omertà – reso più impenetrabile dalla confusione di idee e dei suggerimenti interessati – che impedisce a chi di ragione di orientarsi e di agire.
Mi creda onorevole ministro, con i migliori e sinceri auguri di proficuo lavoro, e con i più rispettosi ossequi, il Suo
Eduardo De Filippo