Trattativa Stato-mafia, fin dai tempi del bandito Giuliano (Video)
Scritto il 27/1/13
Avvelenato in carcere, come da copione, per impedirgli di parlare. E’ la tragica fine di Gaspare Pisciotta, noto come il luogotenente “infedele” di Salvatore Giuliano, rievocata nel film di Francesco Rosi del 1962. La tesi: Pisciotta fu assassinato per evitare che raccontasse la verità, smentendo la versione ufficiale. Ovvero: Giuliano non cadde in un conflitto a fuoco con le forze dell’ordine, ma fu “venduto”, tradito e giustiziato in un vero e proprio agguato. Sicuri? No, non più. Perché Pisciotta forse custodiva altri segreti, ancora peggiori. Per esempio: è possibile che a cadere nell’imboscata di Castelvetrano, 5 luglio 1950, non sia stato Salvatore Giuliano, ma un suo sosia. Il vero Giuliano non è morto quella notte in provincia di Trapani, ma è riparato negli Usa sotto falso nome? Se fosse ancora vivo, oggi avrebbe 90 anni. Fantasma scomodo, quello del “bandito” di Montelepre. Autore del massacro di Portella della Ginestra, la “madre di tutte le stragi”: all’origine di quello che oggi si chiama “trattativa Stato-mafia”. Obiettivo: strategia della tensione, per condizionare la democrazia.
E’ il primo maggio 1947: circa duemila lavoratori siciliani della zona di Piana degli Albanesi, in prevalenza contadini, manifestano contro il latifondismo e a favore dell’occupazione delle terre incolte, galvanizzati dal successo della sinistra alle elezioni regionali. All’improvviso, dalle colline circostanti, partono raffiche di mitra che vengono scambiate all’inizio per scoppi di mortaretti. I morti sono 11, di cui due bambini, e i feriti 27: alcuni di loro moriranno poi per le ferite riportate. La Cgil proclama lo sciopero generale, accusando i latifondisti siciliani di voler «soffocare nel sangue le organizzazioni dei lavoratori». Quattro mesi dopo, si scopre che a sparare sono stati gli uomini del “bandito” Giuliano, in realtà colonnello dell’Evis, l’Esercito Volontario per l’Indipendenza in Sicilia, definito dagli alleati un corpo paramilitare guidato e finanziato dalla Repubblica di Salò. Per i carabinieri, il quadro è chiaro: la strage è opera di «elementi reazionari in combutta con i mafiosi». Chi ha voluto il massacro? Chi l’ha coperto e protetto? Si tratta di terrorismo di Stato?
Portella della Ginestra, sostengono lo storico Giuseppe Casarrubea e il ricercatore Mario Josè Cereghino, segna l’inizio della cosiddetta “trattativa” tra settori dello Stato e Cosa Nostra. Scandagliando gli archivi inglesi e statunitensi, scrive Rossella Guadagnini su “Micromega”, i due studiosi hanno ricomposto un’imponente documentazione, appena pubblicata nel volume “La scomparsa di Salvatore Giuliano. Indagine su un fantasma eccellente”, edito da Bompiani. Fin dalle origini della Repubblica, scrive Guadagnini, grava il peso di un patto stretto tra istituzioni e criminalità, massoneria italo-americana e servizi segreti italiani, statunitensi e inglesi. Un patto oscuro e inconfessabile che, «a partire dal secondo dopoguerra, si rinnova ad ogni transizione dolorosa e confusa, segnando il passaggio tra la fine del conflitto e la prima Repubblica, quindi la nascita della seconda, dopo le stragi del ‘92-’93». Falcone e Borsellino, Ciancimino, l’autodifesa di Mancino al telefono col Quirinale. E prima ancora, la storia opaca delle “stragi impunite”, da piazza Fontana alla stazione di Bologna. Servizi segreti e mafia? Un buco nero, sostengono Casarrubea e Cereghino, che risale al primissimo dopoguerra. E porta il nome del più famoso “bandito” siciliano.
Un omicidio, quello di Salvatore Giuliano, a cui i due autori non credono, preferendo parlare di “messa in scena”. Al punto che le loro ricerche hanno fatto riaprire le indagini alla Procura di Palermo, fino alla riesumazione nel 2010 della salma del bandito. Il sospetto, scrive “Micromega”, è che lì vi fosse sepolto un sosia del “re di Montelepre”. Il vero Giuliano, messo in salvo dall’intelligence statunitense, avrebbe trovato rifugio in America, vivendo sotto copertura e lavorando addirittura per il Pentagono con il nome di Joseph Altamura. Operazione delicatissima e gestita dall’“Anello”, la struttura segreta che avrebbe fatto capo a Giulio Andreotti, al tempo sottosegretario di De Gasperi, secondo quanto riferito da Michele Ristuccia, ex agente dei servizi segreti italiani. Una riesumazione in piena regola, quella del corpo del presunto Giuliano: proprio come quella avvenuta un anno dopo nella Basilica di Sant’Apollinare, a Roma, di un’altra celebre salma, quella di Enrico De Pedis, detto Renatino, boss della Banda della Magliana. De Pedis, ricorda Rossella Guadagnini, risulta coinvolto nella scomparsa di Emanuela Orlandi, che ha visto protagonisti, oltre alla criminalità organizzata, servizi segreti e alte gerarchie vaticane: «Vecchie ossa che fanno tremare, perché in Italia – a quanto pare – i morti “parlano” molto più dei vivi».
In seguito, sui resti di Giuliano è stata eseguita la prova del Dna, comparandolo con quello del nipote. «Ancora oggi, però – rivela Cereghino – sebbene la perizia sia conclusa, attendiamo i risultati del rapporto ufficiale: non si sa quando arriveranno». Come non si sa da dove è uscita la data del 2016, in cui cadrebbe il segreto di Stato sulla morte del “bandito” di Montelepre, descritto dall’intelligence americana come “capo di una banda fascista in Sicilia”. Dopo lo sbarco degli alleati, continua la Guadagnini, nell’isola si contavano fino a 37 gruppi armati: alla fine rimase solo quello di Giuliano, «in quanto era l’unico politicizzato in direzione del cosiddetto separatismo, una copertura del neofascismo in epoca successiva alla caduta del “duce”». Il contributo di questa nuova ricerca su colui che – circonfuso da un alone leggendario – fu ritenuto una specie di Robin Hood, che rubava ai ricchi per dare ai poveri, è quello di aver delineato i contorni di una figura criminale ben precisa, «con poche caratteristiche del bandito e molte del terrorista».
La sua organizzazione, aggiunge “Micromega”, è un vero e proprio commando armato di circa 80 uomini, che compie feroci scorribande in Sicilia: i morti si contano a centinaia. Dopo la strage degli innocenti di Portella, Giuliano esige dai suoi mandanti la garanzia dell’immunità e l’espatrio per sé e per i suoi uomini. Ma gli apparati dell’intelligence e i piani alti dei palazzi romani, a quel punto, fanno orecchie da mercante. Il “bandito” inizia così una guerra personale contro lo Stato e i suoi rappresentanti, a cominciare dalle rappresaglie contro i carabinieri, per far pressione in modo che i patti vengano rispettati. E’ a quel punto che prende avvio la trattativa tra lo Stato e Giuliano, protetto da Cosa Nostra: fin dallo sbarco alleato in Sicilia, secondo Cereghino, il bandito-terrorista «ha avuto il compito di controllare il territorio: un compito assolto finora, grazie ai vari Liggio, Riina e Provenzano». La storia si ripete, cambiano solo gli interpreti. E il nodo iniziale resta Portella della Ginestra, che suona come un “avvertimento” inequivocabile alla vigilia delle storiche elezioni dell’anno seguente, il fatidico 1948, in cui l’Italia sarà chiamata a scegliere tra la Dc filo-atlantica e il Pci di Togliatti, “amico” di Mosca.
«Il discrimine, lo spartiacque – scrive Rossella Guadagnini – parte proprio da quella carneficina di contadini in festa, che diventa la matrice originaria, purtroppo feconda, della serie di altri massacri che hanno costellato la storia repubblicana, condizionandone il percorso». E’ un vero e proprio “romanzo criminale”, che «mantiene inalterata la combinazione tra mafia, politica e istituzioni». Ed è proprio in seguito a quei fatti che nasce la trama della trattativa Stato-mafia, quell’«intesa tacita e parziale tra parti in conflitto», secondo le parole dell’ex ministro Giuseppe Pisanu. Una storia atroce, di eccidi impuniti, i cui mandanti politici sono sempre rimasti occulti. A quale scopo tanta crudeltà e tanta pena, tanto silenzio e tante vittime? «Per comprendere quali furono i veri mandanti delle stragi, coloro che si avvalsero della strategia della tensione, occorre chiedersi a chi giovò effettivamente, chi ne trasse reali vantaggi e benefici», a partire dall’Italia del primissimo dopoguerra, appena uscita dal fascismo, povera e politicamente lacerata, nonché assetata di giustizia sociale.
«C’è una continuità storica – sottolinea Casarrubea – segnata da una serie di stragi che, a partire da Portella della Ginestra, hanno costruito un percorso di azione politica eversiva, volta a ottenere risultati attraverso una lotta politica non ortodossa e sotterranea». Lui e Cereghino non hanno più dubbi: «Abbiamo costantemente registrato una connessione tra l’azione dei servizi segreti, prima il Sis poi il Sifar e il Sismi, con altri livelli di azione dello Stato, legati per un verso al governo nazionale, per l’altro al mondo di Cosa Nostra». Secondo i due studiosi, «si è trattato di un’interazione in cui hanno agito, in modo organico, tre soggetti diversi: elementi del mondo criminale, dominato dalla mafia, che ha funzionato come una sorta di sistema solare rispetto alle orbite del mondo criminale circostante; servizi segreti italiani, dominati a loro volta da quelli americani, Oss e poi Cia; mentre il terzo soggetto è il potere politico».
Se certa cultura antimafia, interpretata da uomini come Giancarlo Caselli e Luciano Violante, ha preferito coniare l’espressione “anti-Stato mafioso”, Casarrubea si vede costretto a correggere radicalmente il giudizio: il potere politico dello Stato, sostiene lo studioso, non è mai stato autonomo rispetto alla mafia e ai servizi segreti, ma anzi ha sempre «interagito in modo organico» con quelle entità. «Tanto che parlare di Cosa Nostra come di un corpo separato è un errore storiografico: è dimostrato che esistono intese costanti nel tempo, che conducono fino alla vicenda di Falcone e Borsellino, e non nascono in una notte dell’estate del ‘92. Connessioni che sono negate e continuano a esserlo anche oggi». Risultato: i mandanti della strage di Portella della Ginestra non si conoscono ancora; a distanza di quasi 70 anni, non c’è alcuna verità ufficiale. «Cosa sono queste stragi – si chiede Casarrubea – se non la manifestazione di un intervento armato su inermi cittadini?».
Un intervento che poi viene sistematicamente coperto, attraverso «le vie del silenzio e della compromissione», che includono altri crimini. Una storia velenosa, come la fatale stricnina somministrata all’uomo che di Portella della Ginestra sapeva tutto: Gaspare Pisciotta. Morì nel giro di 40 minuti, dopo aver sciolto nel caffè un preparato vitaminico la mattina del 9 febbraio 1954. «Uno di questi giorni mi uccideranno», aveva detto. Sia il governo che la mafia furono indicati come i mandanti dell’omicidio, ma nessuno venne mai processato per la morte di Pisciotta. La madre, Rosalia, un mese dopo scrisse in una lettera aperta alla stampa: «Sì, è vero che mio figlio Gaspare non potrà più parlare e molta gente è convinta di essere al sicuro; ma chissà, forse qualche altra cosa può venir fuori». Il fratello, Pietro, provò inutilmente a far pubblicare l’autobiografia che Gaspare Pisciotta avrebbe scritto in carcere: quel documento andò smarrito e il suo contenuto rimase sempre un segreto. Altro dettaglio, illuminato anche da Giovanni Brusca: nel carcere palermitano dell’Ucciardone, Pisciotta non fu recluso insieme ai siciliani, ma coi calabresi dell’allora sconosciuta ‘ndrangheta. Sarebbero stati proprio loro a farlo tacere per sempre.
(Il libro: Giuseppe Casarrubea e Mario Josè Cereghino, “La scomparsa di Salvatore Giuliano. Indagine su un fantasma eccellente”, Bompiani, 360 pagine, euro 12,50; prefazione di Nicola Tranfaglia).
Inserito da Alberto Del Grosso
Garante del Lettore