Napoli non sarebbe esistita senza la sua plebe: Napoli non avrebbe avuto la possibilità di esprimersi se non avesse avuto tanti figli rappresentativi di essa. Ecco perché favole, miti, leggende ed oleografia hanno spesso preso il posto della storia amplificando i significati. Perché molte voci, molti canti, molte grida hanno tuonato, hanno schiamazzato.
Infatti il popolo napoletano è vociante, per nulla silenzioso, costituzionalmente esplosivo, estroso, frenetico, euforico. Ma ha pagato spesso un caro prezzo per una regola di vita eccessiva, è stato considerato nei modi e nelle maniere più negative, dipinto con tanti mortificanti e, soprattutto, considerato sempre povero, nullatenente, affamato e per questo disprezzabile.
Eppure confidando in una tesi finanche azzardata, si potrebbe dire che essa ha vinto su tutto e su tutti, ha vinto sulla Storia perché mai si finirà di descrivere in ogni modo possibile le sue gesta, mai si finirà di comprendere veramente, profondamente le ragioni che sottendono certi comportamenti, che hanno generato certe vicende
Lo scugnizzo è il ragazzino napoletano della tradizione. Lacero, vestito di stracci, è cresciuto praticamente in strada: dal “basso” in cui abita alla pubblica via, è un passo. Insieme alla pizza e al mandolino, lo scugnizzo appartiene all’archetipo napoletano, nonché allo stereotipo. Lo scugnizzo è un impunito: di punizioni non gliene danno i genitori (che di fatto non se ne occupano), né gli insegnanti (a scuola non ci va). La sua maestra (di vita) è la strada: con le sue durezze, ma pure con le sue grandi opportunità. Sempre in giro, dalla mattina alla sera, lo scugnizzo diverte, e si diverte: sa usare la mano e la lingua, e si serve di entrambe con generosità.
Lo scugnizzo dei tempi di guerra, rappresentato nei film del neorealismo (si pensi a “Sciuscià”) era superlativo: piccolissimo, magrissimo, furbissimo. E prontissimo a vendere agli altri scugnizzi i militari americani arrivati a Napoli.
Se la vita dello scugnizzo, tra fame e miseria, era piuttosto complicata, la nascita della parola “scugnizzo” è altrettanto complessa. Scugnizzo deriva dal verbo “scugnare”; scalfire. Quello che andava scalfito era lo strummolo: una rudimentale trottola di legno dotata di una punta di ferro, il perno sul quale la trottola, abilmente manovrata, girava. Lo sfizio dei ragazzini “ ‘e miez’a via” (di strada) era quello di “scugnare”: di scheggiare lo strummolo degli altri con la punta di ferro del proprio. Da qui, “scugnizzi.” Oggi lo strummolo è scomparso, e insieme a lui lo scugnizzo. I ragazzini napoletani, sono passati dalla magrezza patologica del periodo bellico all’obesità. Ai giochi di strada si sono sostituiti i giochi al computer. Che non sono certo quell’addestramento alla socialità e alla vita che erano i giochi (non tutti tranquilli) che gli scugnizzi facevano per la strada: che ha fatto da scuola, e da accademia, per generazioni di napoletani.
Abbiamo cercato un filo conduttore che ha legato il passato al presente e che, pur nel trascorrere dei secoli, ha segnato un percorso nel labirinto della Storia. Questo comune denominatore è stato evidenziato attraverso i modelli più rappresentativi della napoletaneità; i figli del popolo, lazzari prima e scugnizzi poi, fino ad approdare agli odierni muschilli, che con gli antenati cugini condividono un’ansia perenne di ribellione, un desiderio manifesto di libertà, seppure espressa, una scelta di degrado umano e sociale. Questa condizione dovrebbe trovare da parte della società i modi e i termini per agire su una possibilità di recupero di vite sbandate.
Lo scugnizzo spensierato, allegro, vivace seppure affamato e senza lavoro ormai appartiene alla storia, ad una Napoli che non c’è più.
Gli scugnizzi di oggi, che sui motorini percorrono velocemente la città, sono figli di una società diversa, che ha accelerato i suoi ritmi, che si presenta con un volto molto più caotico e spesso non nasconde la sua violenza. Nella città i giovani crescono troppo in fretta, soffocati dall’assenza di spazi per loro.
Nel mondo dei figli del popolo, siano essi lazzari prima e scugnizzi dopo, abbiamo percorso secoli di storia della nostra città.
La storia non si ferma e se girate per Napoli, ancora troverete ad ogni angolo di strada nugoli di ragazzini. Le voci, gli schiamazzi, le urla, se ascoltate con attenzione, avranno significati della gioia e del dolore.
Come un infinito girotondo gli scugnizzi sono parte integrante di Napoli, ne sono,l’anima viva, nonostante il ripetuto rovescio della medaglia, che li vuole comunque impegnati in una lotta alla quotidianità se non addirittura innocente bersaglio di violenza.
La metropoli divide piuttosto che unire, dunque è anacronistico guardarli con il benevolo distacco del ricordo edulcorato del passato, ma è giusto seguirli e calarli nella realtà in cui essi vivono, non dimenticandoci che ognuno di noi è figlio del proprio tempo.
Ed è proprio il tempo che in ogni vicenda tira le somme e consegna alla Storia la pietà infinita.
A questo punto le riflessioni sugli scugnizzi napoletani potrebbero intendersi concluse, poiché seppure in breve, abbiamo cercato di esaminarli attraverso storia e fenomenologie che li contraddistinguono.
La storia li ha visti combattere insieme a Masaniello, crescere come lazzaroni distesi al sole ed emuli del re, ancora liberi e giocosi oppure piccoli eroi della Quattro Giornate, ma sempre permeati di miseria e di arrangio doloroso.
Ispiratori di poeti, pittori, scultori, autori di teatro e cinema, i nostri fanciulli “immortali” sono ben delineati nel quadro della loro vita. Quindi possiamo facilmente immaginarli correre dietro un cerchio che non ha mai fine, a raccontare la loro storia, a piangere, ridere, fare boccacce e ammiccamenti. Rinchiudere il dolore dietro una falsa spavalderia, o dimenticarsi la fanciullezza per affrontare storie più grandi di loro.
Alberto Del Grosso
Garante dei Lettori
Nota: Alcuni passi tratti da Lazzari e scugnizzi –La Napoli tascabile