1535 – La battaglia di Tunisi: Carlo V e Napoli capitale delle Spagne

27 luglio 2015 | 00:00
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1535 – La battaglia di Tunisi: Carlo V e Napoli capitale delle Spagne

"In quei giorni Napoli fu la capitale delle Spagne, ovvero del complesso dei regni federati nella monarchia spagnola, e la prima tra le città della penisola italiana, di cui tutti i signori erano divenuti satelliti, gravitanti nell'orbita politica dei re di Napoli. Era diventata realtà viva il sogno dei poeti del secolo precedente, dal Caritateo al Sanazzaro: il primato del re di Napoli su tutta l'Italia"1.

Era questo lo spirito che si respirava in Europa appena dopo la guerra contro i Turchi. Il regno di Francia era alleato dei turchi/ottomani al fine di espandersi nella penisola italiana. Aveva già invaso la Savoia e con le mire verso la Milano di Francesco Sforza. Le avvisaglie di pericolo erano avvenute l'anno prima, con la conquista degli ottomani di Tunisi da parte Khayr al-Din (Barbarossa). Infatti, dopo che, nel 1534, Barbarossa — i cui corsari avevano moltiplicato le incursioni nel Tirreno, sulle coste siciliane, calabre e campane, spingendosi fino a Sperlonga — si impadronì di Tunisi scacciando il legittimo sovrano Muley Hassan, quando Carlo v nel gennaio del 1535 prese la decisione di condurre personalmente la spedizione, il presidente del Real Consejo e Inquisistore generale, il cardinale Juan Pardo y Tavera elaborò un memoriale per il sovrano. L’arcivescovo di Toledo, espressione nel Consiglio di una linea castigliana che peraltro negli anni Trenta appariva meno energica rispetto al periodo di Cisneros e di Isabella, con parole chiare e forti metteva in guardia rispetto ai rischi materiali di quell’azione militare che sarebbe stato meglio affidare a capitani di sicuro valore, quali non mancavano nell’esercito imperiale, e soprattutto rispetto ai rischi politici del successivo viaggio in Italia che avrebbe significato esborsi finanziari e avrebbe moltiplicato l’incertezza a vantaggio della Francia. La spedizione ebbe inizio il primo di giugno 1535,a seguito dei rinforzi inviati dagli alleati, risultò forte di 335 imbarcazioni tra navi da guerra, galee, hulk e caravelle, 25.000 fanti e 2.000 cavalieri, in prima linea c'erano i legni genovesi comandati dall'anziano ed esperto Andrea Doria, il 15 giugno erano già a Tunisi e dopo alcune settimane l'annientò. Liberò 20000 cristiani prigionieri deponendoli sulle coste siciliane, precisamente a Trapani. La visita di Carlo V in Sicilia nel 1535 rappresentava un’occasione politica per ricomporre le lacerazioni che, nei primi decenni del secolo durante i due viceregni di Ugo di Moncada e di Ettore Pignatelli, avevano dilaniato la società siciliana in un succedersi di momenti di acuta contrapposizione tra il viceré e la nobiltà dell’isola, di aperta rivolta  come accadde nella transizione dinastica nel 1516-17 , di congiure (nel 1522 una congiura filofrancese organizzata dal cardinale Soderini progettava l’intervento di Francesco i di Valois), di scontri durissimi che avevano trovato — come scrive Giuseppe Giarrizzo — alla fine degli anni Venti soltanto un aggiustamento "verso un equilibrio basso"2. In quest’ultima fase, inoltre, si acuì la contraddizione tra la situazione isolana di avamposto nel Mediterraneo e un quadro politico generale che privilegiava, nei domini italiani, la lotta alla Francia dei Valois3. L’esposizione militare dell’isola divenne un fattore di rischio sempre più grave e senza compensazioni: la Sicilia, privata dei vantaggi delle sue relazioni commerciali nord-africane, fu chiamata a contribuire con rifornimenti e donativi alla macchina militare spagnola, a fortificare le sue città, a mantenere le truppe. La logica del viaggio, nella sua tappa siciliana, implicava il completamento dello sforzo finanziario, ma anche un riconoscimento politico e il ristabilimento, attraverso la presenza del sovrano, della giustizia e del buon governo che della sovranità erano gli attributi essenziali. Ben più importante fu naturalmente la lunga visita a Palermo, raggiunta il 12 settembre.

L’ingresso in Palermo, accuratamente orchestrato, fu il primo trionfo di questo viaggio imperiale. L’entrata, come è noto, era una forma cerimoniale consolidata che poteva fare riferimento a diversi modelli secondo il rango e il ruolo politico e/o religioso della persona accolta e secondo il tipo di messaggio che la città voleva comunicare . Nella prima età moderna alla forma medievale dell’entrata si sovrappose il modello antico del trionfo militare che la cultura rinascimentale giustificò e arricchì di nuovi significati. Il mito dei trionfi di Scipione e Cesare preesisteva nella cultura del primo Cinquecento all’evento di Tunisi ma la vittoria di Carlo V sembrò ridare vita e attualità al mito e consentì di declinare una precisa versione, tra le molte possibili, dell’ideologia imperiale. Carlo V visitava dunque l’Italia e anzitutto i suoi domini come sovrano, come imperatore e come generale vittorioso. Solo i sovrani o i visitatori di grandissimo prestigio e potere erano ricevuti fuori delle porte. Così a Palermo, i magistrati, i nobili e i baroni della città e 100 giovani uscirono ad incontrare Carlo v, attendendolo insieme al clero con un "palio" d’oro "lavorato ad aquile" e un cavallo bellissimo che gli fu offerto in dono. Nella città la durata del soggiorno trascorse fra il tempo della festa, speso nei tornei e nelle giostre dove Carlo apparve splendidamente vestito — "di colore candido, riccio d’oro sopra bianco" — circondato dai gentiluomini della casa imperiale e dai nobili siciliani, e il tempo del negoziato politico. La convocazione del Parlamento, immediatamente dopo l’arrivo in Palermo, la proposta di un donativo straordinario di 250.000 ducati4. Terminò il suo viaggio siciliano a  Messina. Passò lo stretto e si fermò a Bisignano, a San Marco, Cosenza, Castrovillari e Padula attraverso Laino, dentro i feudi dei Sanseverino di Salerno.

Dell’entrata in Napoli di Carlo V si dispongono alcune fonti, fra le altre quella di una cronaca eccezionale, quella di Gregorio Rosso, notaio, eletto del Popolo, protagonista non minore, come vedremo, degli eventi del 1535 mettono anzitutto in luce la dimensione cittadina dell’evento che doveva significare per la città la riconsacrazione del suo ruolo di capitale del Regno. Presso Leucopetra (villa di Portici in prov. di Napoli, dove Carlo V vi restò 3 notti) la mattina del 23 novembre, primi "à baciare il ginocchio e la mano à Sua Maestà Cesarea" si recarono gli eletti del corpo di città per esprimere, attraverso le parole dell’eletto del seggio di Capuana, "il grande amore, e fedeltà che tene la Nobiltà e Popolo di Napoli alla sua Corona". Gregorio Rosso riferisce come l’imperatore replicò "con humanità, e amorevolezza grande", parlando in spagnolo e dicendo "che le cose della Città e Regno di Napoli le teneva dentro del cuore, come cose de figli suoi più che de vassalli" . Nobiltà, Popolo, Corona: le parole chiave sono già nel messaggio iniziale della città che si proclama "fedelissima" e chiede al sovrano un rapporto diretto di fedeltà e protezione. Sin dalle sequenze iniziali del rito di accoglienza appare chiaro come, attraverso i gesti cerimoniali, la città vuole con forza inserire nella continuità della sua storia passata la visita del sovrano e far sì che essa illustri e consolidi gli equilibri istituzionali del Regno. I racconti dell’entrata enfatizzano la partecipazione di tutti i segmenti della società napoletana alla festosità dell’accoglienza: "signori e gentilhuomini; mà anco populari, e della più vile plebbe di Napoli" fanno ala nel percorso da Leucopetra a Napoli, curiosi di vedere il sovrano, di godere in qualche modo del privilegio della sua presenza. A Poggio Reale Carlo V viene raggiunto dai rappresentanti degli organismi istituzionali del Regno e della città: primi, vestiti tutti allo stesso modo, i titolari dei Sette Offici che condividevano con il sovrano funzioni e virtù del suo potere, quindi i capi delle piazze di Napoli, molti alti prelati, gli ufficiali di tutti i tribunali. La composizione della rappresentanza che si reca ad accogliere l’imperatore, in un contesto di grande elaborazione formale, è significativa dunque della complessità delle strutture istituzionali del Regno e della città. Da Poggio Reale a porta Capuana, la cavalcata procede secondo un ordine in cui la maggiore o minore vicinanza al sovrano è significativa di una gerarchia di potere. Il corteo, infatti, era aperto dai rappresentanti delle piazze cittadine e dalla nobiltà nei suoi diversi segmenti (gentiluomini, cavalieri, baroni, titolati), quindi procedevano cinque dei sette grandi officiali, il viceré, alla cui sinistra cavalcava Ferrante d’Aragona duca di Montalto che, per essere principe di sangue reale, precedeva tutti i nobili titolati del regno; seguiva, nella sua qualità di gran scudiero il marchese del Vasto "con uno stocco in mano" e quindi il regio tesoriere "che buttava monete" e gli araldi imperiali che precedevano Carlo V, vestito alla borgognona, con il Tosone in petto. Dopo l’imperatore che era quindi al centro del corteo, incedevano il suo cappellano maggiore, i prelati, i consiglieri di Stato, i magistrati dei tribunali. Conflitti e disaccordi si manifestano nel protocollo già in questa prima fase dell’accoglienza fuori delle mura. Carlo v non volle riconoscere a tutti i baroni titolati la facoltà di restare a capo coperto alla sua presenza, come era loro concesso dai privilegi aragonesi, ma neppure negò questa prerogativa, bensì la consentì solo ad alcuni, creando o consolidando, come ha osservato Aurelio Cernigliaro, gerarchie e antagonismi. Il conte di Potenza, Carlo de Guevara, gran siniscalco non considerò la presenza fisica del sovrano una ragione sufficiente per superare l’inimicizia con il marchese del Vasto, causa della morte di suo figlio. Lo stesso d’Avalos non volle permettere a Pier Luigi Farnese e agli altri signori forestieri di prendere posto nella cavalcata vicino all’imperatore, onore che di solito si concedeva ai forestieri nelle manifestazioni pubbliche, e fece prevalere la sua opinione "che in quella giornata non si doveva levare à Regnicoli il loco loro"; perciò il figlio del papa e il suo seguito e anche molti nobili spagnoli non ebbero "loco stabilito", ma "andarno ad alto e a bascio, dove a ciascuno più li piacque"5. "Il regno di Napoli fu, secondo le parole di Pietro Giannone, " 'liberato da straniere invasioni'. Dopo la vittoria sui Francesi, la cacciata dei Veneziani, l'alleanza e l'assoggettamento dei Fiorentini, il contenimento dei turchi, il Regno risplendette nella gloria di Carlo V, il cui zenit è ravvisabile nel ritorno trionfale dall'impresa tunisina, quando giungono a Napoli per rendergli omaggio i duchi di Ferrara, di Urbino e di Firenze, il principe di Molfetta Ferrante Gonzaga, 4 ambasciatori veneziani e Pietro Luigi Farnese, figlio di Papa Paolo terzo, in riconoscimento della supremazia del re di Napoli sugli altri Stati italiani."6

In ogni modo il corteo quale si è formato fuori delle mura rappresenta prevalentemente la declinazione sovrana e regnicola del potere. Un cambiamento dell’ordine avviene alle porte e l’iconografia deve illustrarne le valenze e visualizzarne i significati. Gli ideatori degli apparati napoletani (l’architetto Giovanni da Nola, lo scultore Girolamo Santacroce, il pittore Andrea da Salerno) progettarono una complessa iconografia trionfale in cui la celebrazione dell’impresa si intrecciava all’esaltazione della città, alla rievocazione del suo passato greco, alla manifestazione di venerazione verso i suoi santi patroni. Una prima specificità dell’entrata napoletana fu nella scelta di scandire lo spazio fisico e politico della città nella sua divisione in seggi e di delimitarlo attraverso giganteschi simboli, secondo una pratica figurativa, già sperimentata in altre occasioni cerimoniali, come l’ingresso di Carlo V in Londra nel 1522. Fuori porta Capuana infatti, furono posti due colossi, rappresentanti l’uno la sirena Partenope e l’altro il dio fluviale Sebeto, ma sulla porta erano state erette due statue dei patroni celesti, Sant’Aniello e San Gennaro, "dij tutelares che racomandano la Città al Imperatore" con una scritta ammonitrice, affinché egli, dopo l’accrescimento dell’impero ricevuto da Dio, la favorisca con la sua clemenza e la protegga con la sua giustizia. Altri colossi erano posti a guardia dei territori dei seggi: Giove e Minerva per il seggio di Capuana, Atlante ed Ercole per il seggio di Montagna, Marte e la Fama per il seggio di Nido, Iano e Furore per il seggio di Portanova, il dio marino Portumno e la Fortuna per il seggio di Porto. I luoghi di governo della città erano anch’essi segnati da figure mitologiche. Un colosso che rappresentava la vittoria alata, coronata di lauro era in San Lorenzo, sede del tribunale di città. A sant’Agostino, luogo del seggio del Popolo, si ergeva "il simulacro della Fede vestito di un panno bianco con una mano coperta (mentre) con l’altra mostra[va] quel luogo essere il domicilio e templo suo per la fedeltà del popolo di Napoli con letre: "Hic mihi certa domus tuta, hic mihi numinis ara" (trad. approx:A questo punto posso essere sicuro che la casa è al sicuro, questo è l'altare degli dei). Infine alla Selleria, cioè alla piazza del Popolo, una straordinaria scenografia rappresentava i Giganti che tentano di salire sull’Olimpo per scacciare Giove. Napoli riceveva quindi orgogliosamente Carlo V autocelebrandosi e celebrandolo. Il maestoso arco di trionfo all’entrata di porta Capuana offriva una grande superficie, circondata da colonne e divisa in riquadri, sulla quale erano raccontate più storie: quella dei grandi eroi del passato, Scipione e Annibale, Alessandro e Cesare, quella degli imperatori di Casa d’Austria e delle loro gesta fino ai fatti di Vienna, d’Ungheria e di Tunisi, quella delle azioni eroiche dei grandi capitani cesarei (il marchese del Vasto e Andrea Doria). Sull’arco erano inoltre raffigurate sequenze significative degli eventi importanti della storia contemporanea (ad esempio il rogo di libri luterani) e delle prerogative e della vastità geografica del potere imperiale (così ricorrevano animali e piante esotiche per significare i nuovi domini), ma erano anche iscritti più simboli che richiamavano i miti della città e della sua storia.

"La città di Napoli continuò ad esser governata con un regime speciale, che aveva le sue origini nel secolo precedente. Centro intellettuale ed economico del Regno, ne assumeva la rappresentanza politica, anche se i suoi abitanti erano esenti da imposte. Commercianti e letterati rivaleggiavano con la nobiltà nella vita cittadina attraverso le rappresentanze dei Sedili".7

Davanti a porta Capuana il vicario arcivescovile e il clero già disposto processionalmente attendevano il sovrano che compì, scendendo da cavallo, il consueto omaggio alla Croce. Quindi, risalito a cavallo, Carlo V incontrò il corpo di città che era a piedi, con tutti i suoi rappresentanti vestiti con magnificenza, e condotto dal sindaco. La sequenza rituale della consegna delle chiavi della città fu a Napoli un’azione corale compiuta dagli eletti di tutti i seggi, ciascuno dei quali compì un gesto significativo della collegialità del corpo politico cittadino. Finalmente le chiavi tornarono nelle mani del sindaco. Il corteo allora si ricompose secondo un altro ordine che doveva integrare città, Regno, potere imperiale e potere religioso in una unità. È perciò molto significativo che in una così importante occasione cerimoniale "il Sindaco si mise alla Cavalcata inanzi lo Viceré, con lo stendardo Reale in mano, e li Eletti avanti li sette Officij" e che il giuramento dei privilegi e delle grazie concesse alla "fedelissima Città" fosse compiuto dopo un solenne Te Deum nel Duomo, dove gli eletti parteciparono attivamente alla configurazione dell’azione cerimoniale.

Il modello dell’entrata di Carlo V a Napoli fu, come le fonti ci dicono esplicitamente, la processione eucaristica del Corpus Domini, cuiera il culto cittadino per eccellenza e il suo itinerario segnava il territorio urbano in sfere di influenza politica che corrispondevano alle aree del potere dei seggi. Allo stesso modo si organizzò la processione che seguiva l’imperatore che aveva preso posto sotto il baldacchino. Nel primo tratto da porta Capuana all’Arcivescovado il pallio fu portato da cinque nobili del seggio di Capuana e da un rappresentante del popolo, quindi il sovrano attraversò gli altri quartieri passando da San Lorenzo, dal seggio di Montagna, dal seggio di Nido per la Vicaria fino al seggio di Portanova e di Porto, "scambiandosi da Seggio in Seggio li cinque Cavalieri che lo portavano, e conforme si suol fare nella festa del Sacramento, rimanendoci sempre uno per lo Popolo, e uno per lo Baronaggio…".

L’iconografia che segnava lo spazio civico e la configurazione spaziale del percorso erano perciò due aspetti di uno stesso messaggio politico: la città voleva autorappresentarsi in un linguaggio mitico e storico che integrasse la realtà politica dell’evento. Se il percorso dell’imperatore si modellava, come del resto era consueto nelle entrate, sul rito del Corpus Domini, l’iconografia e l’itinerario processionale, pure scandito da immagini e gesti che enfatizzavano il potere imperiale, rinviavano alla originaria sacralizzazione della città attraverso la metafora del Corpus Christi.

Cruciale è d’altronde l’analisi delle reazioni e delle decisioni politiche di Carlo V durante il suo lungo soggiorno napoletano, rispetto alle diffidenze esplicite e implicite che si erano manifestate contro il suo viceré. Dall’8 gennaio al 3 febbraio del ’36 fu convocato in San Lorenzo il Parlamento generale del Regno inaugurato dallo stesso imperatore che sedé in un palco in alto sotto un baldacchino circondato dai titolari dei Sette Offici che "con apparati superbi" portavano le insegne imperiali, mentre a destra e a sinistra prendevano posto i titolati secondo la loro precedenza con il sindaco al primo rango e infine gli officiali e i consiglieri di Stato lungo le scale del palco reale. Nel suo discorso solenne di apertura della sessione del Parlamento Carlo V precisava gli scopi della visita: certamente provvedere al patrimonio regio attraverso lo strumento del donativo, ma anche riorganizzare l’"assetto" e la "forma" del regno con il consiglio e l’assistenza dei membri del Parlamento e "ordinare, et provedere in questo Regno tutto quello che convene al benefitio vostro generale e particulare tanto ne le cose che principalmente tocano ala justitia retto, et quieto vivere de li populi, quanto in tutte le altre vostre occurentie". Nelle formule retoriche consuete, attraverso il riferimento ai temi del buon governo e della giustizia sovrana, l’imperatore poneva comunque sul tappeto la questione della ristrutturazione amministrativa del regno che implicava il problema, difficile in sè, e ancor più nella situazione napoletana del momento, dei poteri del viceré. Una risposta immediata venne alla richiesta del donativo. Il giorno successivo al discorso inaugurale il baronaggio determinava una contribuzione di un milione e cinquecentomila ducati "per le spese fatte, e da farnosi in varie guerre per reputatione della sua Corona e sicurezza dello nostro Regno", ma la decisione dové essere vagliata da una deputazione, composta da baroni titolati, baroni privati, rappresentanti dei seggi e sindaci delle città demaniali, formatasi il 12 gennaio con il compito di elaborare anche il testo delle grazie e capitoli da sottoporre al sovrano. 

È innegabile, dunque, che il calcolo politico che alcuni settori dell’élite feudale del Regno, unita da vincoli matrimoniali e da solidarietà "culturali" profonde, avevano realizzato sulla visita dell’imperatore fu smentito dalle dinamiche che si instaurarono durante il viaggio. Nel marzo del 1536 Carlo V, considerando "con quanta prudenza, vigilanza e sollecitudine" si era comportato Pedro de Toledo nell’espletamento del suo ufficio, lo confermò per tre anni nel suo incarico di viceré, consegnandogli nuove istruzioni… La vastità e l’articolazione dei problemi affrontati nella Istruzione mostra quanto fosse stata ampia l’opera di informazione e di "ascolto" cui Carlo V si era dedicato durante il suo soggiorno napoletano. Il testo delle Istruzioni, quello delle 31 grazie generali e delle 24 grazie particolari proposte dal Parlamento e spedite al sovrano, la riunificazione delle precedenti prammatiche napoletane con le 37 prammatiche più recenti, pubblicata il 22 marzo 1536 provano altresì come la visita napoletana coincise con una intensificazione dell’attività di elaborazione normativa e di pubblicazione delle leggi. 

La visita di Carlo v coincise, dunque, con un momento cruciale del processo di ridistribuzione di onori, offici e rendite che aveva avuto inizio nei primi anni del viceregno spagnolo e che si era bruscamente accelerato durante l’ultima crisi del 1527. Il consolidamento del possesso di beni e rendite, concesse con patto di retrovendita, nelle mani di nuovi possessori fu fondamentale nel cementare la fedeltà e nel rafforzare anche il ruolo politico di alcune figure…

Ma torniamo alla visita di Carlo. Al fine di tessere e rafforzare un rapporto diretto con il sovrano, non meno importante fu per l’aristocrazia l’organizzazione di una intensa cerimonialità festiva. La nobiltà feudale del Regno che aveva partecipato per "farsi onore" alla spedizione di Tunisi e che aveva combattuto valorosamente, trovò nei tornei, nelle giostre, nelle battute di caccia la proiezione festiva dell’ethos cavalleresco che l’impresa aveva ravvivato. La presenza del sovrano faceva sì che a Napoli tornasse, sia pure per un periodo molto breve, una vera corte. Questo significò un susseguirsi di banchetti, di accademie poetiche — come quella tenuta in dicembre nel giardino di Poggio Reale, di balli  come quello sontuosissimo dato in Castel Capuana per le nozze di Margherita d’Austria e di Alessandro de’ Medici il 29 febbraio, o quello per il matrimonio, pure voluto dal sovrano, tra Isabella Colonna e Filippo de Lannoy, principe di Sulmona —, di giochi — come la corrida in piazza Carbonara il 3 gennaio —, di feste — come quella organizzata durante il carnevale , nella quale, dopo la rappresentazione della vittoria di Tunisi, l’imperatore, mascherato alla moresca, "danzò con nobilissime donne rimettendo alquanto la gravità sua". Ma questo era solo un aspetto della cronaca napoletana di quei mesi.

Con la consueta perspicacia Gregorio Rosso annotava: "mentre l’Imperatore stette a Napoli, nell’estrinseco se attendeva à feste, e giochi, ma nell’intrinseco se trattava da vero la guerra contro lo Re de Franza, se intendeva, che oltre la pretendenza dello Ducato di Milano, haveva protestato la guerra allo Duca di Savoia cognato delo Imperatore".

Il negoziato diplomatico a Napoli divenne febbrile e la città meta di principi e alti prelati, attori anch’essi delle iniziative cerimoniali, ma soprattutto protagonisti di trattative politiche. In una lettera da Napoli all’imperatrice, il 18 gennaio 1536, Carlo elencava le più importanti visite che aveva ricevuto nella capitale del Regno: i cardinali legati del papa, cioè Giovanni Piccolomini, arcivescovo di Siena, decano del sacro collegio e Alessandro Cesarini, romano, vescovo di Albano che erano ripartiti con Pier Luigi Farnese per preparare la tappa romana del viaggio, quattro ambasciatori veneziani, ricevuti con molto onore e trattenuti per 15 giorni, gli ambasciatori lucchesi, il duca di Ferrara, venuto a rendere omaggio all’imperatore, il duca di Firenze, i cardinali Ridolfi e Salviati e si attendeva anche il duca di Urbino. I problemi sul tappeto erano molteplici e tutti intrecciati: la questione di Camerino che aveva avuto il suo inizio nel 1527 con la morte di Giovanni Maria Varano, ultimo duca di questa famiglia che deteneva la signoria della città dal tredicesimo secolo, ma che aveva subito una brusca accelerazione durante il conclave del 1534, quando si era conclusa l’alleanza matrimoniale tra Giulia Varano, figlia di Giovanni Maria e Guidobaldo della Rovere, principe ereditario di Urbino, nonostante il formale divieto del collegio cardinalizio. Eletto papa, Paolo iii non esitò a prendere una dura posizione contro il matrimonio, celebrato ma non consumato, fino alla scomunica il 17 febbraio 1535 di Giulia e Guidobaldo. La diffidenza subentrata tra i Farnese e i della Rovere, i timori della Santa Sede rispetto all’unione territoriale tra Urbino e Camerino, forse le mire del nuovo pontefice su Camerino come possibile signoria territoriale per i nipoti spiegano la dura posizione papale che si spinse fino alla minaccia di un intervento armato, ma allo stesso tempo rendono conto di come i Varano e i della Rovere cercassero alleanze e protezioni nello schieramento italiano e internazionale: presso i Gonzaga e direttamente presso l’imperatore al cui arbitrato fu rimesso il conflitto. 

In questo contesto si inserì, a Napoli all’inizio del 1536, mentre il duca Alessandro diventava genero dell’imperatore, la missione impossibile dei cardinali Ridolfi e Salviati.

Salviati e Ridolfi, cardinali  narrava Paolo Giovio si sforzarono di spogliare il duca Alessandro di ogni reputazione e del principato di Toscana e finalmente della moglie, ancorché le nozze fossero apparecchiate, offerendogli [all’imperatore] tutti d’accordo gran somma di denari ogni anno, se rifiutato il genero e cacciatolo da Fiorenza egli rimetteva la città nella sua libertà di prima. Percioché eglino con orationi scritte e pubblicate lo chiamavano per ingiuria bastardo, nato da una fante contadina e crudel tiranno della nobilissima patria. Ma l’Imperatore havea talmente in odio quella città la quale chiaramente favoriva la parte di Francia, e per ragioni di guerra per lo delitto delle infedeltà, havea meritato ogni male per essere trattata come nimica che non volle accettare conditione nessuna per metterla in libertà.

Se la questione di Camerino e il governo di Firenze erano due problemi di primo piano della congiuntura politica del 1535-36, cruciale e soprattutto urgente appariva la decisione politica sullo Stato di Milano. Nel 1536 la possibilità di una successione francese a Milano attraverso il matrimonio del duca di Angoulême e la duchessa vedova Cristina di Danimarca, nipote di Carlo v, che era stata lungamente dibattuta nelle corrispondenze diplomatiche negli anni precedenti, pareva ancora realizzabile, ma si parlava anche di mire della casa Farnese e soprattutto queste ipotesi contrastavano con la realtà della situazione militare in Lombardia saldamente controllata dall’esercito imperiale. Federico Chabod in pagine insuperate ha ricostruito nella sua complessità e ambiguità questa congiuntura. "In tutto questo intrecciarsi di voci e di trattative"  scriveva Chabod  "una sol cosa certa: che il destino di Milano non era ancora definitivamente deciso. Nulla ancora della sicurezza di dopo Cateau-Cambrésis: Milano non era e non appariva dominio spagnolo indiscusso […]. Le forze politiche reali che volevano e tenevano Milano erano spagnole; il fondamento giuridico e formale della loro azione si chiamava, invece, impero". In ogni caso al consiglio imperiale e allo stesso Carlo V era ormai chiaro da tempo che non del solo Milanesado si trattava, ma dell’egemonia politica dell’intera penisola, che se Milano era la porta di Italia, era anche un "sobborgo" di Napoli e che controllare l’Italia significava pure difendere il Piemonte, garantirsi il controllo dell’inquieta e frantumata geografia politica delle signorie padane, avere un principe alleato a Firenze e un pontefice che favorisse, nella loro complessità, gli interessi imperiali. Perciò, nella primavera del 1536, la prosecuzione del viaggio verso Roma, più volte rinviata, diventava ormai improrogabile, per le urgenze militari che richiamavano a nord l’imperatore ma anche per l’importanza politica dei colloqui con Paolo iii, un papa romano che aspirava a comportarsi da principe indipendente, ma anche ad usare in modo energico l’autorità spirituale che la sua carica gli conferiva.Ma queste sono altre storie.

Note:

1Francisco E. De Tejada – Napoli Spagnola Vol.2

2-3 G. Giarrizzo,La Sicilia dal Cinquecento all’Unità d’Italia

4V. Saletta, Il viaggio di Carlo v in Italia, in "Studi meridionali"

5 Il Viaggio cerimoniale di Carlo V dopo Tunisidi Maria Antonietta Visceglia

Francisco E. De Tejada – Napoli Spagnola Vol.2

Francisco E. De Tejada – Napoli Spagnola Vol.2

Il Viaggio cerimoniale di Carlo V dopo Tunisidi Maria Antonietta Visceglia