Castellammare, omicidio Tommasino non fu camorra

22 settembre 2015 | 00:00
Share0
Castellammare, omicidio Tommasino non fu camorra

Castellammare. Non si trattò di omicidio di camorra perché non ci sono né mandante né movente. Queste sono le motivazioni con le quali la Corte di Cassazione il 4 giugno scorso ha parzialmente annullato – con rinvio ad un nuovo collegio della Corte d’Appello di Napoli – gli ergastoli comminati a Catello Romano e Renato Cavaliere, i due killer del consigliere comunale Luigi Tommasino, ucciso al centro di Castellammare nel pomeriggio del 3 febbraio 2009 mentre era in auto in compagnia del figlio minorenne. «Il mancato accertamento del movente – scrivono nella sentenza i membri della Suprema Corte – è in logica, e non risolta, contraddizione con l’assunto che il delitto sarebbe stato commesso al fine di agevolare l’associazione mafiosa di riferimento». Dunque, pur essendosi pentiti gli esecutori materiali del delitto, i quali risultano affiliati al clan D’Alessandro, non è accertato che gli stessi abbiano ucciso il consigliere comunale del Pd su richiesta del sodalizio criminale che ha la sua roccaforte nel quartiere collinare stabiese di Scanzano. Una motivazione che spinge ancora di più a mille ipotesi sull’omicidio, risolto a metà. Per un periodo, l’Antimafia ha indagato l’allora reggente del clan Vincenzo D’Alessandro come mandante, senza che mai le indagini riuscissero ad arrivare ad una conclusione. Nessun pentito ha mai fatto il nome di «Enzuccio», nessuna prova concreta ha mai portati gli inquirenti a confermare quella che sembrava una tesi quasi scontata. Dunque, la Cassazione non ha confermato che ad armare i killer del clan D’Alessandro sia stato proprio la famiglia camorristica stabiese. L’omicidio si consumò nel primo pomeriggio. Gino Tommasino era nella sua auto lungo il viale Europa, accanto a lui c’era il figlio minorenne. La vettura fu affiancata da uno scooter (Honda Sh 125 spot nero) e partì una scarica di proiettili che lo uccise all’istante. Alcune telecamere ripresero gran parte di quei tragici attimi e si arrivò in pochi mesi all’identificazione dei quattro componenti del commando di fuoco: con Romano e Cavaliere c’erano Salvatore Belviso (cugino del boss Enzo D’Alessandro) e Raffaele Polito, oggi entrambi collaboratori di giustizia. Tutto era stato organizzato vicino ad una chiesa, poi i quattro si divisero su due scooter e misero in atto la spedizione di morte. Romano aveva appena 19 anni all’epoca dei fatti; era giovanissimo, si trovò a partecipare ad alcune attività del clan D’Alessandro, aveva in tasca la tessera del Partito Democratico come Tommasino e fu coinvolto proprio nel suo omicidio. In carcere si è dato allo studio e al buddhismo e in Cassazione ha ottenuto un risultato insperato dopo i primi due gradi di giudizio. Cavaliere, invece, ha 46 anni: era il più esperto del gruppo, fu lui a sparare tredici volte contro il consigliere comunale ed oggi è il nuovo pentito del clan D’Alessandro. Un anno fa, durante il processo per l’omicidio Vuolo, si tagliò le vene in diretta video dal carcere di Rebibbia. Adesso, con lo status di collaboratore di giustizia si presenterà per il nuovo processo di secondo grado e – oltre ad assicurargli uno sconto di pena – la sua testimonianza potrebbe essere utile agli investigatori per scoprire nuovi dettagli utili su un’inchiesta mai veramente chiusa. Resta in piedi, infatti, l’ipotesi del delitto politico, con un movente tutt’altro che malavitoso alle spalle, che ad oggi – ad ormai 6 anni e mezzo di distanza – non trova ancora una risposta certa. Sullo sfondo l’affare rifiuti, la privatizzazione delle Terme, la gestione di alcuni appalti, addirittura un debito non saldato con il clan D’Alessandro: tutte ipotesi che restano tali e che hanno spinto la Suprema Corte ad annullare in parte la sentenza confermata in Appello poiché senza un mandante e un movente certi, non si può attestare che il clan D’Alessandro potesse trarre benefici dall’uccisione del consigliere comunale. Dario Sautto, il Mattino