Costacurta Milan forte, puo’ battere la Juventus

22 ottobre 2016 | 00:00
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Costacurta  Milan forte, puo’ battere la Juventus
Costacurta  Milan forte, puo’ battere la Juventus
Costacurta  Milan forte, puo’ battere la Juventus

Alessandro “Billy” Costacurta, 50 anni, ha giocato con il Milan per ventuno stagioni e con la maglia azzurra, contando anche l’Under 21, per dodici anni

Costacurta ha un’idea bella del calcio, ma più bella ancora della vita. Sa quello che è davvero importante, quello che resta, quello che ti serve per vivere felice. Ha vinto ogni cosa vincibile, ha giocato fino a quarantuno anni, ha segnato un gol a quella veneranda età, ha onorato e amato una sola maglia. E’ stato corretto, o almeno educato, come sua madre gli aveva insegnato. Ha senso di umorismo e, quando parla di calcio, mette allegria: ne parla con passione, ma senza febbre, con competenza ma senza faziosità. Gioca con il calcio, lui che sa che è un gioco. 

«Io ho cominciato a giocare perché avevo un fratello più grande che mi portava con sé quando andava al campo. Io lo aspettavo seduto, le spalle appoggiate a un muro. Quando mancava qualcuno lui mi faceva un fischio e io mi alzavo a molla. Poi entrai in una squadra dal nome profetico, si chiamava la “Asso”. Ci entrai perché era comodo per mia mamma che accompagnava al campo mio fratello grande, sempre lui, e non sapeva dove lasciarmi». 


Com’era la prima maglia di Alessandro Costacurta? 

«Granata. La “Asso” era una succursale del Torino, una squadra satellite. Diventò rossonera perché giocammo una partita contro il Milan e io, che ero stato inopinatamente schierato a centrocampo, segnai due gol. In verità, quando cominciai da ragazzo, chiesi di giocare da libero perché avevo frainteso, pensavo che in quel ruolo potevi fare quello che ti pareva. La mia interpretazione letterale non coincideva con quella dell’allenatore che mi disse che non avevo capito nulla e che mi dovevo mettere tranquillo davanti al portiere e non muovermi». 

I suoi genitori la seguivano? 

«Mio padre era un piccolo imprenditore, commerciava in bilance. Mia mamma faceva la sarta. Papà era spesso all’estero e allora era mamma che mi accompagnava al campo, quando ho cominciato a giocare nella “Asso”. Ma era spesso infastidita dalle urla degli altri genitori, urla che non accettava. Mio padre morì la sera prima della finale del torneo Berretti che dovevamo giocare con la Lazio. Non ha visto tutto quello che mi è accaduto dopo. Penso sarebbe stato orgoglioso di me. Mia mamma mi ha seguito fino alla fine degli anni novanta. Mi ha sempre detto solo una cosa: “Quando fai un fallo, anche brutto, chiedi sempre scusa”. E io ho sempre chiesto scusa. Anche quando quello che lo subiva se lo meritava». 

Chi è stato il suo primo allenatore? 

«Si chiamava Fausto Braga, parlava solo dialetto milanese, una lingua che mi ha insegnato. Fu lui che mi fece capire il valore dell’allenamento, di una crescita che nasceva dalla fatica e dal sacrificio. Poi maturai con Fabio Capello che allenava la Berretti. Lui curava molto la formazione individuale, la crescita tecnica del singolo. Non è mai cambiato. Mi ricordo, in quegli anni, che nello spogliatoio , durante l’intervallo di un derby, entrò urlando e prese a calci le nostre borse, shampoo e saponi che volavano dappertutto. Quella aggressività l’ha accompagnato sempre. Non abbiamo mai capito quanto fosse reale e quanto invece strumento per tenere il gruppo costantemente sotto pressione». 

Chi la portò in prima squadra? 

«Liedholm, che era il contrario di Capello. Sempre tranquillo, sereno, con una grande capacità di coinvolgere il prossimo. Con un’eccezione. Se vedeva che tu scagliavi via grossolanamente un pallone il volto gli diventava tutto rosso, sembrava stesse per deflagrare. Non sopportava le palle buttate via alla “viva il parroco”. All’inizio non gli piacevo tanto. Non ero del livello tecnico che lui gradiva». 

Poi arrivò Sacchi. Che opinione ne ha conservato? 

«Guardava meno alla tecnica, più alla tattica e alla disciplina in campo. Il suo mantra era la precisione dei movimenti. Ma le devo dire che è stato un grande insegnante di calcio. Correggeva dei dettagli che noi non pensavamo mai potesse notare chi non aveva giocato al calcio a gran livello. Ci insegnava, nel 1987, la disposizione dei piedi e ci faceva capire come la giusta posizione consentisse il tempo corretto di anticipo sull’avversario. Era capace anche di essere ossessionante. In quell’ora e mezza di allenamento non si poteva né ridere né parlare. E se qualcuno lo faceva, lui mandava Carmignani a mostrare la faccia feroce. In ritiro, prima di ogni partita, era assolutamente vietato ridere. Le confesso che delle volte, in piena notte, lo sentivamo che urlava, nel sonno, le stesse disposizioni che ci dava in campo. E, mi creda, sentir gridare “Sali o Accorcia” alle tre di notte fa un certo effetto». 

Zaccheroni com’era? 

«Aveva una totale fiducia in noi. Con Maldini e con me lui condivideva tutte le decisioni. Ci coinvolgeva, ci convinceva, ci faceva sentire importanti. E poi, tatticamente, è stato l’allenatore capace di creare, con i movimenti di ogni linea, il maggior numero di giocate possibili per ciascuno di noi. Quando avevo la palla potevo sempre scegliere due o tre soluzioni per smistare. Il movimento della squadra era perfetto». 

Invece con Terim non andò d’accordo. 

«Arrivò con la presunzione di un imperatore. Pensava davvero di essere più importante di ciascuno di noi e della società. Non è mai entrato nella nostra mentalità. Per farle degli esempi: fumava nel ristorante, non aspettava Galliani, come da tradizione, per iniziare la cena. Era un navigatore in solitaria. Alla prima partita non mi convocò, senza neanche dirmelo. Me lo comunicò il direttore sportivo sul pullman. Io ci rimasi male ma, con me, tutta la squadra. Non eravamo abituati ad essere trattati così. Esigevamo più rispetto, non eravamo dei pivelli». 

E Ancelotti? Era uno di voi… 

«Con Carlo avevamo giocato a lungo insieme. Paolo ed io all’inizio gli davamo del lei e lo chiamavamo mister, anche se lui non voleva. Volevamo costruire la giusta distanza, quella necessaria tra allenatore e giocatori. Ma lui era straordinario nella costruzione del gruppo, nell’amalgama che sapeva tessere tra tutti noi, in campo e fuori. Sapeva coinvolgere e noi non siamo mai stati così uniti come quando lui ci ha allenato». 

Insomma chi sono stati i tecnici con i quali lei si è trovato meglio? E con quali peggio? 

«Peggio non ho dubbi: Terim. Meglio con Tabarez e Zaccheroni. Tabarez era un vero signore e capiva di calcio. Non è stato un anno fortunato ma ciò non toglie nulla alle sue qualità. Nella vita si può essere grandi senza vincere sempre». 

Tassotti, Costacurta, Baresi, Maldini è stata la più forte linea difensiva della storia del calcio moderno? 

«Non so dire se la più forte, ma certamente quella che si muoveva meglio insieme. Non sbagliavamo di un centimetro i movimenti. Da questo punto di vista penso che noi siamo stati i migliori. E anche le qualità tecniche individuali non erano male. Diciamo che ce la battiamo con la BBC della Juve di oggi e con la difesa della Germania del 1974. Ma noi avevamo quella dote: la capacità di muovere come un’armonia musicale la linea tra noi». 

Ricorda qualche clamoroso litigio nello spogliatoio? 

«Quello per me più avvilente fu in campo, per un contrasto. Fu tra due amici, due che giocavano insieme a golf, Tassotti e van Basten. Si presero proprio a pugni, fu choccante. Poi passò presto e senza lasciare strascichi. Io invece litigai con Seedorf, poi ricordo un match tra Borriello e Maldini. In un’altra occasione litigarono di brutto Capello e Gullit. Fabio aveva lasciato fuori squadra Ruud e disse che era per un problema fisico. Gullit voleva che si dicesse invece che era stata una scelta tecnica. Discussero aspramente e a un certo punto Ruud prese Capello per il bavero e lo alzò da terra. Fabio fu bravissimo, non fece una grinza e aspettò che lo rimettesse giù. Governò bene quella situazione. Certo Gullit era anche grosso, non so se Capello avrebbe fatto lo stesso con Cornacchini….». 

Chi è stato l’attaccante più pericoloso che ha marcato? 

«Ronaldo, il brasiliano. Non ho dubbi. Ti faceva sempre fesso. Se gli stavi troppo vicino giocava in profondità, se lo guardavi da lontano ti saltava, era forte fisicamente. Ho giocato contro Maradona, che era fortissimo. Ma la notte prima di incontrare Ronaldo era difficile dormire, pensando alla brutta figura che ti avrebbe fatto fare». 

E il centravanti più cattivo? 

«Aldo Serena. Nella vita un ragazzo meraviglioso ma in campo era insopportabile. Si buttava a terra, provocava, te ne diceva di tutti i colori. Diciamo che aveva quello che si chiama il “temperamento agonistico”. Un altro tosto era Bobo Vieri. Non uscivi dal campo con la stessa faccia con la quale eri entrato». 

Lei ha vinto sette scudetti, cinque Supercoppe, cinque Champions, quattro Supercoppe Uefa, due Intercontinentali. A quale di questi trofei è più legato? 

«Alla prima Coppa dei Campioni vinta con il Barcellona. E a quella del 2003 contro la Juventus. Avevo trentasette anni e tutti avevano pronosticato il mio canto del cigno, in quella stagione». 

Le costò non giocare la finale dei Mondiali del 1994? 

«A ripensarci oggi viene da sorridere. Non so se, visto come sta Totti, manterrò il record del giocatore più anziano che ha segnato in serie A: avevo quarantuno anni. Ma nessuno mi toglierà un altro primato: quello di aver saltato due finali importantissime dopo averle guadagnate in tutte le partite eliminatorie. Mi è successo con la Champions, mancai con il Liverpool, e mi è accaduto negli Usa con la Nazionale. Quando rimediai con la Bulgaria il cartellino giallo mi disperai. Poi me ne sono fatto una ragione». 

Posso chiederle cosa pensò quando Sacchi sostituì Baggio dopo l’espulsione di Pagliuca? 

«Sono sincero. Tutti noi pensammo quello che rivelò il labiale di Roberto: “E’ pazzo”. Era lui il nostro giocatore più importante, quello più capace di tenere palla, di inventare. Poi la squadra si comportò bene. E forse, alla fine, non fu una sciocchezza quella decisione». 

Con chi ha stabilito una amicizia più forte in campo? 

«Con Paolo Maldini. Lui arrivò tra noi ragazzi in un ritiro precampionato. Io ero il capitano di quella “Primavera” e, sinceramente, pensai che, essendo lui il figlio di Cesare, fosse privilegiato. Dopo due allenamenti lo chiamai e gli dissi di starmi vicino. Avevo capito che era un talento assoluto. Da quel momento abbiamo sempre giocato insieme. Fuori dal Milan quello con cui mi sono trovato meglio è stato Casiraghi della Lazio». 

Cosa pensa della vicenda Maldini-Milan? 

«Penso, voglio essere schietto, che è stata fatta una scelta con una strana tempistica. Io voglio anche mettere in conto che Paolo, gliel’ho detto, forse ha sbagliato in questi anni a non fare corsi o altro. E questo può aver spaventato i cinesi. Io a Paolo affiderei mio figlio, ma io conosco lui e il calcio italiano. Quello che voglio dire è che prima di scegliere Mirabelli potevano indicare Paolo. Lui non voleva cariche, non voleva prendere il posto di Galliani, voleva essere responsabile dell’area tecnica, voleva poter essere responsabile di decisioni in quell’ambito. Voleva chiarezza. Io ho sperato che per quindici giorni la situazione si spegnesse. Poi Paolo non ha apprezzato certe uscite dei nuovi dirigenti e la cosa è morta lì. Quando finalmente capiremo chi è davvero il nuovo padrone del Milan sono certo che Maldini sarà richiamato. E’ una grande risorsa per i rossoneri». 

E lei tornerebbe al Milan da dirigente? 

«Guardi: io oggi sento di essere un padre migliore e un marito migliore. Posso viaggiare e conoscere, ed è ciò che mi piace di più al mondo. Oggi a Sky sono in una condizione bellissima, ho raggiunto la serenità professionale e personale. Non mi arrabbio più neanche nel traffico… L’unica cosa che mi potrebbe turbare sarebbe la proposta di allenare una squadra negli Usa. E’ un mondo, non solo sportivo, che mi affascina e mi attira». 

Se lei fosse il presidente della Figc, quali scelte farebbe? 

«In primo luogo cercherei di favorire la scelta di un presidente della Lega che tutelasse tutte le squadre. Vorrei una figura come il commissioner della Nba, garante e tutela di tutte le società, senza distinzione di sorta. Poi vorrei che non fosse sottostimato il nostro patrimonio di giovani. Oggi i vivai non sono certo aiutati, non esistono esperienze come la Cantera del Barcellona. E poi ci vorrebbero, da quanto tutti lo ripetiamo, le seconde squadre». 

A proposito di giovani, quali sono gli eredi di Costacurta? 

«Romagnoli può diventare uno dei più forti difensori d’Europa. Ma in questo periodo è migliorato troppo poco. Deve crescere più velocemente. Rugani forse ha meno qualità ma sembra avere più voglia, più grinta, più desiderio di migliorare». 

Perché, a parte la parentesi del Mantova, lei non ha più allenato? 

«Quello non fu, per me, un bel periodo. La società andò in crisi, tipo il Pisa di oggi. Io poi, quando allenavo, non vedevo l’ora di tornare da mio figlio, che aveva quattro anni. E quando stavo a casa pensavo alla squadra. Non faceva per me quella situazione. Ma sono tanto presuntuoso da pensare che potrei essere un buon allenatore». 

Come le sembra il Milan di Montella? 

«Mi sembra che, dopo un tempo convulso, si sia trovato un assetto ordinato e un clima sereno. Gioca un calcio che, per quanto posso ricordare, piacerebbe al vecchio presidente. Montella, con le sue scelte, è in sintonia anche con San Siro. Farà bene e avrà credito. Mi pare che cerchi una qualità tecnica che è uno dei codici del dna rossonero». 

A suo figlio come direbbe cosa è il calcio? 

«Ho sempre sperato che lui facesse degli sport di squadra, e sono contento che oggi giochi a basket. Gli ho sempre detto che in un gruppo sei sempre aiutato e che in un gruppo trovi sempre qualcuno che aiuta te. E che questo ti servirà anche nella vita». 

Scelga un istante della sua incredibile carriera e lo porti con sé per sempre. 

«Quando vincemmo la Champions a Manchester contro la Juve. Ricordo la corsa verso la tribuna per abbracciare mia moglie Martina. Non sembri una concessione al romanticismo, è davvero il momento per me più emozionate. E uno ancora. L’ultima partita. Di solito i giocatori che lasciano piangono di malinconia. Io sorridevo, ero felice. Perché da quel momento avrei avuto il tempo per stare con mio figlio». 

fonte:corrieredellosport