Fiorenza Cedolins, Tosca, la diva

24 dicembre 2016 | 16:21
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Fiorenza Cedolins, Tosca, la diva

Fiorenza Cedolins e Daniel Oren firmano questa Tosca natalizia. Renzo Giacchieri realizza la gabbia precostruita da Giacomo Puccini. Superba l’orchestra che sposa l’intenzione di un Ambrogio Maestri, interprete di un barone quasi simpatico

Di OLGA CHIEFFI

Teatro Verdi tutto esaurito per la prima della Tosca, che si pone in chiusura di una interessante stagione lirica. Come ci si attendeva, Renzo Giacchieri non ha messo naso fuori della gabbia precostruita dai tempi e dai luoghi del libretto, senza tentare nulla, finanche il rosso del vestito di Tosca, evocante la più amate delle locandine di quest’opera, ma ideando la assoluta e inutile novità della pistolettata finale di Spoletta, che in genere impedisce al Sergente che comanda il plotone di esecuzione di finire Mario Cavaradossi, ricoprendolo, invece, con un mantello. Tosca è una partitura che Daniel Oren ama e si è potuto toccare con mano, forse per la scommessa realistica cui lo incita. Oren ha adattato l’orchestra a questi cantanti, procedendo ad un lavorio di cesello che non ha mai disarticolato, andando, invece, a cogliere infallibilmente la sintesi delle linee dinamiche, di una partitura che è risultata, stavolta, tersa e aerea per il disegno drammaturgico e il disegno espressivo. La voce dei cantanti è andata ad esprimere segni di creature nude di ogni idealità, puro sussulto psicologico, schiavi di se stessi, della loro parte più oscura, annientati definitivamente dal corsivo della vita. In Tosca la disperazione si imbeve di politica, e di quell’intrecciarsi del potere laico con l’altare che è stata la linea difficile della nostra storia unitaria dal settembre del 1870 in poi. Ambrogio Maestri l’eccellenza assoluta del baritono buffo, adorato Falstaff o Dulcamara, porta il pubblico quasi a parteggiare per il subdolo charme del barone Scarpia, che non appare per intero mostro mefitico e corrotto, quale è, ma sincero uomo di mondo e fedele servitore dell’autorità, che in “Tre sbirri…e una carrozza”, che rivela il personaggio, ha addomesticato anche l’orchestra, con il suo canto perfetto, rotondo e la sua recitazione elegante, mai malvagia, come si addice al sanguinario capo della polizia segreta. Fiorenza Cedolins è la Tosca italiana per eccellenza, splendida nella voce e nella recitazione ha ben definito gli strappi vocali che costellano la sua parte, srotolando d’esperienza il velluto della sua voce, in quelle pause di disteso lirismo, e nell’ attesissima “Vissi d’arte” che ha fatto testo a sé, facendo “cadere” il teatro oltre che rivelando la assoluta padronanza del canto di conversazione. Gustavo Porta è sul viale del tramonto. Poco controllo su di un fin troppo generoso registro acuto, ma vanno riconosciuti i meriti di uno sforzo che, però, più di una volta, è divenuto enfasi uniforme, in particolare nel primo atto, mentre, la più compiuta e appassionata confessione di Cavaradossi “E lucevan le stelle”, così come, “O dolci mani mansuete e pure” hanno strappato l’applauso, nonostante la minima sottolineatura psicologica del personaggio, e qualche “spigolo” di troppo. A completare il cast, un Angelotti da dimenticare per la voce di Carlo Striuli, Angelo Nardinocchi un indovinato sagrestano, un convincente Spoletta è risultato Francesco Pittari, unitamente allo Sciarrone di Pierrik Boisseau e al carceriere di Navot Barak. Dignitosi il coro di Tiziana Carlini e le voci bianche di Silvana Noschese, così come una menzione va ad Aiscia Husanait, che ha cantato, con voce pura e intonata, la difficile aria del pastorello che gioca con il modo lidio, incantando l’uditorio. Finale firmato interamente dall’orchestra e dai nostri legni. Lo sfondo d’amore fra l’eroina e il suo Mario è la sontuosa evocazione del paesaggio romano. Daniel Oren ce ne ha offerto la pantografia musicale, con gli improvvisi incendi convulsi, e le sfibratezze necessarie dei violini, che guidati da un’impeccabile Daniela Cammarano, sembrano lacerarsi nelle sete esotiche, unitamente ai legni, di Valeria Serangeli, Hernan Gareffa e Antonio Senatore, che trasaliscono alludendo a soffocazione. In un cielo, firmato da Jean Baptiste Warluzel, la luce delle stelle s’incenerisce e apre allo sconsolato Malessere del secolo breve, sotto l’abituale pioggia di rose e applausi.