Marcello Napoli Ci sono molti modi per raccontare i paesaggi, la notte; Vincent Van Gogh dipinge una gara di girandole, ghirigori e danze di luci tra le stelle e il solitario lampione della strada deserta. Il podio più alto dei calendari del 2017 va a quello della Di Mauro, realizzato con dodici fotografie di Mario […]
Marcello Napoli Ci sono molti modi per raccontare i paesaggi, la notte; Vincent Van Gogh dipinge una gara di girandole, ghirigori e danze di luci tra le stelle e il solitario lampione della strada deserta. Il podio più alto dei calendari del 2017 va a quello della Di Mauro, realizzato con dodici fotografie di Mario Mele, su progetto grafico di Stefania Amos. Protagonista è la Costiera con i suoi squarci di rocce o esplosioni di orizzonte; ma soprattutto di luci, riflessi nel blu cobalto della notte e del mare che gioca con le lame di argento della luna. Un cielo lapis, senza trucchi, con ottiche e tecnica da maestro e una sensibilità non comune; quel lapis di cielo e mare, trapunto di polvere d’oro, pietra e simbolo venerata dagli Egizi. Il nostro satellite illumina con una fluorescenza opalina le fotografie; quell’astro che nemmeno i futuristi e i proclami di Marinetti -«Oh, luna sonnolenta e passatista, noi ti abbattiamo con i nostri bei riflettori»- e nessuno mai potranno spegnere; magari offuscare sì, con tutto lo smog e la sufficienza possibile e l’umanità, la pietas, la poesia in un cantuccio, come optional della vita, come assenza e non come essenza dell’essere. Il palcoscenico divino è la Costiera, le cittadine che si confondono con le galassie nei tuffi o profili o tagli di Mario Mele. Una vertigine è osservare il ponte di Furore dal basso; un ponte, uno stargate per l’infinito. Ci ha provato Grandville, ripreso nel catalogo della Einaudi, a prospettare un ponte di mattoni tra la Terra e Luna; ma senza le ali della sensibilità, il viaggio è impossibile e la meraviglia anche. Con le stelle, lo spazio, Mario ha come una comunanza d’amorosi sensi. Lo ricordiamo in Marocco con la Nasa a fotografare, simulando uno sbarco su Marte, gli astronauti e le loro tute sperimentali in un futuro ammarraggio sul pianeta rosso, quello degli alieni, dei marziani e di tanta fantascienza. A farci da timoniere, in questi scorci notturni, non è solo la luce e la mappa delle stelle e la luna, quel portolano che per secoli ha diretto le rotte delle navi e dei caravanserragli verso le vie della seta o nuovi mondi. C’è una pagina, come un colophon, come un apostrofo e alfabeto di fosfeni, scritta da Diego De Silva, che nella sua sinteticità, apre il varco alla meraviglia e all’emozione sincera, profonda: «Diversi anni fa, mia figlia bambina un giorno mi domandò cosa fosse la luna. Domanda difficilissima. I bambini non ammettono giri di parole, non li concepiscono. La cifra del loro linguaggio è la limpidezza. È una lampadina che si accende di notte senza che tu schiacci l’interruttore. E lei capì, addirittura sorrise. Le foto di Mario Mele ci restituiscono in ogni scatto, la continuità di cielo e terra (acqua inclusa), somigliano molto a quel tentativo di risposta a una domanda bambina», scrive De Silva. Le rocce, le luci elettriche delle immagini, evocano non descrivono. Praiano è una costellazione in un vassoio, in un cono di luce argentea; Ravello è Alpha Centauri in terra e a Positano, se capovolgi la foto, le barche sono stelle, pianeti, comete e il riflesso della luna è un arabesco nel mare. Le isolette de Li Galli hanno la stessa materia dei sogni, per dirla con Shakespeare e Capo d’Orso, Furore, Santa Maria de Olearia, Maiori, son più simili a miraggi; la Torre di Erchie, un castello incantato. Un carosello di immagini come un antidoto alla solitudine sgtruggente invocata da Saffo.