Hotel Rigopiano, misteri e abusi. Resort in un’area a rischio. I sospetti dei geologi
È il finale tragico di una storia maledetta che in mezzo secolo ha visto consumarsi mano a mano il sogno del padre fondatore, in una catena di eredità contese, rapporti familiari complessi, un fallimento da due milioni e mezzo, un paio di processi. Fino alle 17,30 di mercoledì scorso e al nuovo capitolo che si […]
È il finale tragico di una storia maledetta che in mezzo secolo ha visto consumarsi mano a mano il sogno del padre fondatore, in una catena di eredità contese, rapporti familiari complessi, un fallimento da due milioni e mezzo, un paio di processi. Fino alle 17,30 di mercoledì scorso e al nuovo capitolo che si apre, l’ultimo. È con le ipotesi di disastro colposo e omicidio colposo plurimo che la Procura della Repubblica di Pescara ha avviato l’inchiesta sulla slavina che ha cancellato l’Hotel Rigopiano, sulle pendici pescaresi del Gran Sasso. Diranno l’esame dei filmati e le perizie su carte e macerie, dopo l’inevitabile sequestro che scatterà una volta terminate le operazioni di soccorso, quante e quali responsabilità penali sono ravvisabili nella tragedia e nel timing delle operazionidi soccorso, che ugualmente finirà sotto la lente anche se di fronte a muri di neve alti quattro metri, lungo una strada che negli ultimi dieci chilometri diventa un sentiero tortuoso è difficile ipotizzare che si potesse fare prima e meglio. Dirà l’incrocio con le evidenze dei precedenti giudiziari, l’ultimo conclusosi un paio di mesi fa con assoluzioni e prescrizioni, quanto di utile la storia del resort può offrire al nuovo lavoro di indagine nel quale il Procuratore di Pescara Cristina Tedeschini impegnerà un massiccio schieramento di sostituti. Ma una domanda grava da subito sull’onda di neve assassina allungatasi come un gigantesco sudario sull’Hotel Rigopiano: quell’albergo poteva sorgere lì, in una valletta isolata a ridosso dei contrafforti rocciosi dell’altopiano di Campo Imperatore, perennemente esposto al rischio di valanghe? È pronto a giurare di no, di fronte alle prime, sbrigative analisi basate su Google maps, uno dei massimi esperti italiani della progettazione di impianti a fune, l’ingegnere aquilano Dino Pignatelli: «Sicuramente – dice – neve e terremoto hanno la colpa principale, ma l’hotel è situato in una posizione completamente esposta. L’esistenza di un bosco, evidenziata come motivo di sicurezza, non ha nessuna rilevanza; il bosco può essere una protezione attiva se si trova nella zona di possibile distacco. Il versante a monte dell’hotel, privo di alberi e con le caratteristiche proprie di un sito valanghivo, confluisce in una gola generando la classica valanga incanalata, la più violenta. Al contrario, un bosco posto lungo il prevedibile tragitto di una valanga ne incrementa le capacità distruttiva arricchendo la massa nevosa di detriti e materiale legnoso». Come confermano puntualmente le prime immagini girate dai soccorritori all’interno della struttura. Eppure all’inizio aveva il sapore della sfida eroica la scommessa di Ermanno Del Rosso, un figlio di questa terra che nei primi anni Sessanta investì i suoi risparmi nella costruzione del primo nucleo dell’albergo. Poco più di un rifugio, poche camere, gestione familiare. Prende corpo il sogno dello sviluppo turistico di un lembo di montagna abruzzese troppo interno, troppo isolato. Al passaggio generazionale sono due nipoti di Ermanno, morto senza figli, a rilevare dagli altri familiari la proprietà. Costituita la Del Rosso srl, Paolo e Roberto, si lanciano nell’ambizioso progetto di riqualificazione del complesso, che nel 2007, conquistate le quattro stelle e il raffinato centro benessere, viene inaugurato addirittura dal presidente del Senato dell’epoca, l’abruzzese Franco Marini. Momento magico incorniciato dall’arrivo di ospiti vippissimi come Vasco Rossi e George Clooney. Dura poco. Soltanto un anno più tardi il primo inciampo con l’inchiesta relativa ai lavori di ampliamento che trascina in tribunale gli ex sindaci di Farindola Antonello De Vico e Massimiliano Giancaterino, gli ex assessori Ezio Marzola e Valter Colafigli e l’ex consigliere Andrea Fusaro. Tutti usciti puliti dall’accusa di corruzione. Nel 2010 il fallimento, che porta alla luce una girandola di passaggi societari sui quali si innesta la parallela inchiesta per bancarotta. Si scopre che la Del Rosso srl, la società aggredita dei creditori, si è nel frattempo spogliata della proprietà dell’immobile, trasferito alla trevigiana A-lease e da questa preso in affitto; la gestione dell’attività alberghiera, invece, viene ceduta a cascata ad altre tre società, la Mountain park spa, la Gran Sasso resort srl e la Gran Sasso resort spa, ultimo gestore dell’hotel con ad Bruno Di Tommaso, nipote di Roberto Del Rosso perenne uomo immagine a caccia di ospiti di riguardo. Un gioco di sigle che fa ovviamente impantanare il fallimento nella palude dei contenziosi collaterali, mentre il passivo lievita fino a due milioni e mezzo a garanzia dei creditori non restano che i mobili dell’albergo, unici beni di proprietà della Del Rosso srl. Fino alle 17,30 di un mercoledì da cani. (Paolo Mastri – Il Mattino)