L’ex campione del mondo Jorge Valdano: «Allenare il Napoli sarebbe stato un onore»
È stato calciatore, allenatore e dirigente: Jorge Valdano ha vinto ed è uscito dal calcio anche se ne continua a scrivere e parlare, ma di lato. Il filosofo Fernando Savater dice che: «L’autorità si ottiene per percussione o per persuasione. Violenza o argomenti seduttivi». Ecco, Valdano di argomenti seduttivi ne ha un milione. Per restituire […]
È stato calciatore, allenatore e dirigente: Jorge Valdano ha vinto ed è uscito dal calcio anche se ne continua a scrivere e parlare, ma di lato. Il filosofo Fernando Savater dice che: «L’autorità si ottiene per percussione o per persuasione. Violenza o argomenti seduttivi». Ecco, Valdano di argomenti seduttivi ne ha un milione. Per restituire la sua figura bisogna immaginare Luis Molowny, un grande allenatore del Real Madrid, e prendere in prestito dal basket Juan Antonio Corbalan, unirli e poi immaginarli mentre citano José «Pepe» Mujica e Sun Tzu con uno come Florentino Perez, il presidente del Real Madrid che chiama Valdano a ricoprire la carica di direttore generale. Prima, quando gli era toccato d’allenare il Real, mandò un messaggio ai ragazzi delle giovanili: «Le porte della prima squadra non si aprono spingendole, ma sfondandole». Da quella porta arrivò il suo giocatore preferito: Raul. Un calciatore che traeva ispirazione dall’esattezza e non dalla fantasia, un cultore della sostanza, proprio come il Valdano che media tra lo spogliatoio del club più importante del XX secolo e il suo consiglio di amministrazione, almeno fino a quando non arriva José Mourinho «un personaggio fatto su misura per questi tempi rumorosi». Anche se Valdano fa di tutto per mostrarsi come Raul, è tradito dalle parole, quella che ricorre più spesso dalla sua biografia ai suoi libri è “sogno”: «Un ideale che ci chiama da lontano e ci spinge all’impegno e alla sfida». Il suo primo articolo per “El Pais” era sulla partita di Coppa Campioni Real Madrid – Napoli e lei raccontò lo scontro tra Maradona e Butragueño usando un tango, “Dos pibes de milaños”. Se dovesse scriverne oggi, chi sceglierebbe e con che titolo? «Oggi quei pibes si sono convertiti in eroi. Il titolo non so, dovrei pensarci di più, però sono certo che il pezzo comincerebbe così: “Trenta anni dopo, Maradona gioca nel Real Madrid e si chiama Cristiano Ronaldo”». Allora questa volta passerà il Napoli. E a proposito di (s)cambi: anni dopo era in Italia a commentare il Real Madrid quando il Tenerife la chiamò ad allenare. Ogni volta che il Real gioca in Italia lei cambia lavoro, questa volta diventa ministro? «Dopo essere passato dal Madrid mi sento pronto anche per trattare con Donald Trump. Ma non aspiro a nessun ministero, non ho interesse verso nessun partito però, per evitare tentazioni, non verrò a Napoli». È sempre severo col gioco italiano, ha visto quello del Napoli che sembra olandese-catalano? Conosce le idee di Maurizio Sarri? «Conosco Sarri e vedo il Napoli ogni volta che posso. È una squadra che mantiene un rigore tattico caratteristico del calcio italiano, però con un senso dell’avventura che è molto lontano dal calcio che critico e vicino a quello che mi piace». Il Napoli ha due ex calciatori del Real: Albiol e Callejon. Bastano due pezzi di Madrid per avere speranza di vittoria? «Sono giocatori affidabili che non si faranno spaventare dalla visione dello stemma madrileno. Il Real Madrid ha una rosa ampia che permetterà a Zidane di scegliere tra diverse opzioni tattiche per vincere. Però il Napoli è una rivale temibile e il San Paolo uno stadio intimidatorio». Lei parla spesso dell’importanza dello stile, ma come si acquisisce? «Diamo allo stile una dimensione puramente estetica e questo è un errore. Avere stile significa avere una personalità definita che serva sia per attaccare che per difendere. Per conseguirlo servono conoscenza, carattere e anche buongusto. Nella composizione conviene non dimenticarsi dei calciatori. Con Messi avere stile è molto facile, ecco, per nominare un altro giocatore di statura maradoniana». Ha occupato tutti i posti importanti nel Real Madrid – le manca solo di essere presidente – è stato per anni l’immagine del club, ci dice come si diventa Galacticos? «Per essere Galacticos bisogna avere un talento superiore». Lei scrisse cose magnifiche di Zidane calciatore – un elefante con i piedi da ballerina – ma Zidane allenatore è bravo o è solo un uomo fortunato? «Dalla sua venuta al Madrid, Zidane non ha commesso errori e non per questioni di fortuna, ma di gestione del talento. I giocatori gli credono, contiene i conflitti con la naturalezza di Ancelotti e vincendo la Champions ha rafforzato la sua fiducia come allenatore». Rafa Benitez – allenatore della rinascita del Napoli – a Madrid è stato trattato male, chi ha sbagliato? Florentino Pérez, Ronaldo o la piazza madrilena? «Rafa Benitez pensava di arrivare al Real Madrid che aveva lasciato quasi venti anni prima. Invece si è trovato un universo nuovo con un calcio che doveva convivere con il marketing, con una diversa rete sociale e con la nuova condizione di calciatori diventati eroi. Aveva sicuro bisogno di più tempo, però il calcio di oggi non ha tempo e il Real Madrid meno ancora». Il Real Madrid sembra essere il responsabile del calcio moderno, della sproporzione economica come del consumo dei calciatori. È un errore dei sentimentali oppure il Real, come Voltaire per il razionalismo, è colpevole di tutto? «Il Real Madrid arrivò al futuro prima degli altri, ma questo i suoi critici non sembrano capirlo. Anche Santiago Bernabeu anticipò il suo tempo e proprio la sua visione differente permise al Real Madrid di diventare il miglior club del ventesimo secolo. Il sentimento è parte integrante del calcio e da esso dipende il suo esito universale, però non dimentichiamoci che è dai soldi e dagli affari che dipende la sopravvivenza». Come sono oggi i rapporti con Diego Maradona? Due uomini che hanno vinto la Coppa del mondo non dovrebbero avere per sempre 12 anni e dirsi almeno una volta al mese: è successo veramente? «L’ammirazione è quella di sempre, però ora dovremmo porci delle domande complicate. Nell’86 vivemmo una esperienza meravigliosa e indimenticabile. In quella squadra maturò un genio – Diego – che in quel mese era in uno stato di grazia. Per il resto, facciamo finta di essere in un processo e io le dico: non commettiamo errori, proseguiamo con le domande». La sua linea di allenatori sembra andare da Menotti a Guardiola passando per Bielsa, ma c’è qualcun altro che le piace? Pochettino per esempio? O Ancelotti? «Menotti lo conobbi quando avevo 17 anni e la sua influenza sulla mia sensibilità arriva fino a oggi. È un allenatore affascinante. Su Guardiola, per me è l’ultimo rivoluzionario dopo Arrigo Sacchi. Un Menotti 3.0. Ammiro Bielsa per il suo rigore etico e Ancelotti per la sua saggia serenità. Di Pochettino mi piace il suo saper scommettere sui calciatori giovani». Antonio Conte non dovrebbe essere tra i suoi preferiti, però ha umiliato Mourinho che fu l’uomo che causò la sua uscita dal Real Madrid. Ora che l’allenatore portoghese sembra aver perduto la condizione di “Special one” ha pensato: tutti cadono? «Antonio Conte è un grande allenatore e non perché ha umiliato Mourinho, ma per come si adatta alle necessità dei giocatori di oggi che, in un gioco perverso, ogni giorno si sentono meno liberi diventando pezzi della sua scacchiera. In quanto a Mourinho, è un altro grande allenatore che ha inteso molto bene l’importanza della periodizzazione negli allenamenti. Se parliamo di conoscenza mi interessano tutti, se invece parliamo di gusto, allora basta tornare alla risposta di prima, i nomi sono quelli». E di Diego Simeone – che sembra essere il nuovo Mourinho – che pensa? «Che è un leader di primissimo livello. È impossibile non riconoscere la sua opera, nonostante provenga da una scuola diversa dalla mia». Ronaldinho ha detto di recente che non finisce di vedere le partite per noia, lei come si regola? «Alle partite concedo venti minuti come ai libri venti pagine. Se non mi convincono spengo la tivù o chiudo il libro». Ha seguito il “tradimento” di Gonzalo Higuain? Che dopo essere diventato un profeta post-maradoniano è andato alla Juventus lasciando il Napoli. È giustizia capitalista o ingiustizia sentimentale? «I giocatori sono mossi più dal desiderio di gloria che dal denaro. Però il calcio è indiscutibilmente una manifestazione capitalista e un simbolo della globalizzazione. E la globalizzazione ha un comandamento principale: ogni giorno pochi ricchi hanno tutto e molti poveri non posseggono nulla. Lei da che parte sta? Dopo, noi possiamo prendere un caffè e possiamo tornare romantici, però prima è difficile scappare da questa trappola. Il calcio sta dentro la società e anche dentro l’economia. Non bisogna demonizzare gli affari, ma la corruzione». Lei non conserva ricordi di quando giocava ed ha cambiato vita diverse volte. Che consiglio darebbe a una città come Napoli che vive di nostalgia? «La vita è avanti. E la nostalgia ha senso solo come motore del futuro». L’Argentina non vincerà mai il Mondiale se Messi non passa al Napoli come Maradona o fin quando gli allenatori della nazionale argentina non impareranno i suoi libri a memoria? «Non dimentichiamo la fortuna come uno dei componenti importantissimi del calcio, per quanto sia impossibile analizzarla. Nessuno gioca meglio al calcio se legge un libro e Messi è un genio anche senza vincere un mondiale». Siamo a 20 anni dalla morte di Osvaldo Soriano, lo scrittore argentino che ha cambiato il modo di raccontare il calcio, l’ha conosciuto? «Amo Soriano, tutta la sua opera mi appare meravigliosa e mi dispiace che in Italia si conosca poco Roberto Fontanarrosa, altro magnifico scrittore capace di allacciare libri, calcio e pubblico. Soriano non l’ho conosciuto personalmente, però ogni tanto rileggo una lettera che mi mandò poco prima della sua morte, dove mi scriveva, come se si trattasse di un sogno interminabile, della mia corsa verso il portiere della Germania nella finale del mondiale messicano. Si chiedeva che cosa stessi dicendo alla palla prima di decidermi a tirare». Valdano e Eric Cantona sono gli ultimi esemplari di calciatori che sapevano essere anche intelligenti? «I giocatori di calcio sono persone che hanno una grande intelligenza naturale. L’intelligenza ha molti modi per manifestarsi e comunque scrivere o recitare non migliora le persone né i calciatori». Perché ha smesso di allenare? Tornerebbe se la chiamasse il Napoli? «Ho smesso di allenare perché era un compito adatto a persone ossessive e io, invece, sono un dispersivo. Se mi offrissero un’altra vita allora ne passerei una buona parte ad allenare. Compreso il Napoli, se mi concedesse l’onore di chiamarmi. Però temo che la vita sia una sola e dedicarla interamente al calcio, nonostante sia un’attività appassionante, mi pare eccessivo». (Marco Ciriello – Il Mattino)