Massimo Ranieri e il progetto Viviani

23 gennaio 2017 | 15:32
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Massimo Ranieri e il progetto Viviani

Successo di critica e pubblico per l’artista che al teatro Verdi torna a vestire i panni di Viviani nella piéce diretta da Maurizio Scaparro “Caffè del Porto” Di OLGA CHIEFFI Non è affatto facile comporre una compagnia all’altezza di mettere in scena Raffaele Viviani. E’ teatro si, ma è soprattutto musica. Massimo Ranieri, attualmente, è […]

Successo di critica e pubblico per l’artista che al teatro Verdi torna a vestire i panni di Viviani nella piéce diretta da Maurizio Scaparro “Caffè del Porto”

Di OLGA CHIEFFI

Non è affatto facile comporre una compagnia all’altezza di mettere in scena Raffaele Viviani. E’ teatro si, ma è soprattutto musica. Massimo Ranieri, attualmente, è l’unico in grado di rappresentare degnamente Viviani, grazie alla sua grande sensibilità di artista a tutto tondo, canta, recita è sua la grande gestualità di cui abbisogna l’opera di Viviani. E’ un autore che gli appartiene geneticamente, sono luoghi quelli che descrive il drammaturgo, che Ranieri ha vissuto, sono le sue stesse ragioni natìe. Ma sono le stesse ragioni anche degli eccellenti musicisti che ha scelto per farsi sostenere nel suo spettacolo, il pianista conductor è Ciro Cascino, il contrabbassista Luigi Sigillo, menzione per il sassofonista e flautista Donato Sensini, in particolare nei soli al soprano, e ancora il violinista Sandro Tumolillo cui è toccato aprire lo spettacolo con il tango-canzone Pifiaste, una composizione del 1929 destinata “A mi mejor amigo el gran actor del arte napolitano, Rafael Viviani” da Rafael Buonavoglia, che l’attendeva a Buenos Aires, con l’intera compagnia. E proprio dalla vigilia della partenza, dall’ultimo spettacolo al Teatro del Porto, al saluto e forse all’arrivederci al suo pubblico, è dedicato la pièce, “Caffè del Porto, firmata dal regista Maurizio Scaparro e dalle raffinatissime ricerche musicali di Pasquale Scialò, che tanto ha pubblicato sull’autore di Castellammare di Stabia. A distanza di un lustro da “Viviani Varietà”, in cui la compagnia provava sul transatlantico, qui si fa un passo indietro. Il simbolo è sempre quello del viaggio, viaggio verso le Americhe, la fortuna, si scappa da una Italia in crisi, ambasciatori dell’arte del teatro, e non emigranti, alla ricerca di un altro mondo, forse impossibile e proprio per questo nuovamente percorribile, in fuga dall’intricata rete delle nostre miserie quotidiane, comunque alle prese con il nostro passato e le presenze multiformi delle nostre paure e dei nostri desideri, poiché l’arte è l’ultima illusione, “L’arte non finisce mai”. A “Canzone ‘ e sott’ ‘o carcere” da “Circo Equestre Sgueglia”, Lavannarè, ‘Mmiez’ ‘a folla da “Festa di Piedigrotta” e ancora “‘O malamente” e “‘O sapunariello” da “Via Toledo di Notte, la cavatina di Don Checco,virtuosistico scioglilingua, di rossiniana memoria, che apre il secondo tempo, l’evocazione del “varietà” più puro e lo scambio di battute con il grande batterista attore, Mario Zinno, nonché i musicisti in scena all’inizio dello spettacolo, perfetti nel gesto, nelle espressioni, segno di quel demone che prende l’artista per intero, dalla musica, alla parola, alla danza. Palcoscenico aperto, tre pedane, due fondali, poiché Viviani ha conosciuto per propria esperienza, in Napoli poverissima, la condizione del più povero; e gli basta, talvolta, una battuta, un distico, per descriverla e vendicare il suo popolo dalle umiliazioni, dalle offese, dalla secolare ingiustizia. La sua, però, non è mai una parola ribelle, ma è sempre una parola amara, tagliente, dolorosa, è quella dell’uomo del popolo che sta dalla parte del popolo, e del poeta che sa dirne il dolore. Gemma assoluta, l’omaggio ai tanti guappi che compaiono nelle commedie di Viviani, che ha messo in luce un inappuntabile Massimo Ranieri, dalle intonazioni vibranti, mimica pittoresca, con citazioni di movimenti da Totò e Taranto, comprensione ed approfondimento dell’arte vivianesca, unitamente a Ernesto Lama, Roberto Bani, Ivano Schiavi e al salernitano Antonio Speranza, che da anni milita nella compagnia degli “Ipocriti”. Sopra le righe le donne in scena, da Angela De Matteo a Gaia Bassi, sino a Francesca Ciardiello, nella loro schietta e vigorosa napoletanità, artiste chiare e sincere, che hanno dato vita a Ines, detta “Bammenella ‘ e copp’ ‘e Quartiere” dotata di un fascino irresistibile, la prostituta non più giovanissima, ma ancora piacente e convinta di sapere ancora “vendere il mestiere”, Donna Celesta, Donna Teresa, la chantosa. La sirena del Duilio suona, è il segnale dell’addio, si lascia Napoli, con un bagaglio, d’immagini, di suoni, di profumi, di affetti, infinito. Il teatro esplode nel saluto a Massimo e ai suoi musici con una tromba d’eccezione Giuseppe Fiscale, il quale nel finale per permettere a Mario Zinno di salire da “attore” sul palcoscenico, impugna impeccabilmente le bacchette, simbolo della sua musicalissima famiglia, assidendosi alla batteria, per guidare la passerella finale, evocando suo padre Oreste detto “O’Nasone”, batterista d’elezione dell’indimenticato Mario Merola.