Trump vieta l’ingresso negli Stati Uniti ai cittadini della Ue nati nei Paesi all’indice: tra questi la moglie iraniana di Grillo
Vietato l’ingresso negli Stati Uniti. Con un tratto di penna, il 27 gennaio, Donald Trump ha cancellato due secoli di civiltà giuridica culminati nella Dichiarazione universale dei diritti umani (1948) e nella Convenzione di Ginevra (1951). Improvvisamente sbalzati fuori dalla Terra dei liberi, i rifugiati di sette nazioni che per i prossimi 90 giorni non […]
Vietato l’ingresso negli Stati Uniti. Con un tratto di penna, il 27 gennaio, Donald Trump ha cancellato due secoli di civiltà giuridica culminati nella Dichiarazione universale dei diritti umani (1948) e nella Convenzione di Ginevra (1951). Improvvisamente sbalzati fuori dalla Terra dei liberi, i rifugiati di sette nazioni che per i prossimi 90 giorni non potranno mettere piede negli States a prescindere dal motivo del loro viaggio. Ma come stanno davvero le cose e quali conseguenze attendersi? L’«ordine esecutivo» firmato dal tycoon venerdì scorso, ha bloccato l’ingresso in America di tutti i cittadini provenienti da Iraq, Siria, Iran, Libia, Somalia, Sudan, Yemen per 120 giorni. A pagare il conto più salato i profughi siriani, che in buona sostanza non potranno più recarsi negli States, a differenza degli altri, a tempo indeterminato. Sull’onda di vibranti proteste e manifestazioni, che rischiano di mandare in default fondamentali accordi come quello con l’Iran sul nucleare, lo staff di Trump ha poi corretto il tiro. The Donald ha precisato infatti che il divieto di immigrazione è sospeso per 90 giorni, al fine di riesaminare i meccanismi di accettazione e assicurare che le regole siano abbastanza stringenti da impedire ai terroristi islamici di infiltrarsi negli Stati Uniti. «Non è la religione ma il terrorismo», ha provato a giustificarsi il tycoon. Che ha dimenticato però di spiegare ai suoi cittadini come mai ad esempio tra i Paesi bannati al fine di evitare un nuovo 11 settembre non figuri quell’Arabia Saudita dalla quale provenivano metà degli attentatori alle Torri Gemelle e con la quale il neopresidente ha intrattenuto fino a poco tempo fa floridi rapporti di affari. Idem di casi per Egitto, Emirati e Libano, altri Paesi di provenienza del commando di Ground Zero, estromessi dalla black list. Nel tentativo di placare le accuse di discriminazione razziale e religiosa, la Casa Bianca ha tentato di imputare le evidenti contraddizioni che hanno ispirato la lista nera a Barack Obama. Un funambolismo interpretativo che però, persino nell’era della post verità, si è miseramente incagliato nei fatti. Le misure cui fa riferimento lo staff di The Donald sono quelle adottate dalla presidenza Obama a dicembre del 2015. Ma quella legge, il Terrorist Travel Prevention Act, non si è mai prefissata di vietare l’ingresso negli ai cittadini di Iran, Iraq, Sudan e Siria Libia, Somalia e Yemen. In realtà, la legge ha stabilito che i cittadini originari dei sette Paesi considerati a rischio terrorismo, seppure muniti di doppia nazionalità, possano fare ingresso negli Stati Uniti soltanto dopo aver ottenuto un visto, anche se soddisfano i requisiti del Vista Waiver Program, il Programma di Viaggio senza Visto, che consente ai cittadini di numerosi Paesi (e tutti quelli membri dell’Ue in particolare) di entrare negli States per affari, piacere o transito, per un periodo massimo di 90 giorni. Al di là di equilibrismi e tweet minacciosi, il decisionismo di Trump ha colto in contropiede i funzionari dei dipartimenti della Giustizia e dell’Homeland Security. Tanto che il caos ha preso a regnare sovrano. Prova ne sia la retromarcia che il governo ha dovuto intraprendere nei confronti dei possessori di Green Card e cioè di quegli stranieri residenti in terra americana sine die. Il fulmineo decreto del tycoon aveva indotto le autorità a credere che dovessero essere fermati anche loro, nonostante un permesso di soggiorno permanente. Poi il chiarimento. Identico marasma anche negli aeroporti, dove tra sabato e domenica sono state arrestate 190 persone. Avevano volato verso gli Usa dopo aver ottenuto dei regolari visti. Ma allo sbarco si sono ritrovati in manette, per poi essere rilasciati soltanto in seguito all’intervento di alcuni giudici federali. Ci sono opinioni discordanti. In odore di incostituzionalità, il diktat presidenziale ha scatenato una raffica di ricorsi, già a partire dal 28 gennaio, quando il giudice Ann Donnelly della Corte di Brooklyn ha assicurato ai cittadini coinvolti nella purga trumpista la possibilità di rimanere negli States e ha sventato la loro deportazione nei Paesi d’origine. Ma a gettare nel caos anche il Vecchio continente è la comunicazione lanciata ieri su Twitter dall’ambasciata Usa a Berlino: «Sono pregati di non chiedere visti», anche i cittadini europei in possesso di doppia nazionalità. Un monito, piuttosto esplicito, che spiega le sibilline dichiarazioni del premier May, all’indomani dell’incontro con Trump: «Ci opporremo a conseguenze per i cittadini britannici». La compagnia aerea olandese Klmela Swiss si sono intanto già rifiutate di imbarcare alcuni passeggeri diretti negli Stati Uniti, mentre in rete montano i casi di ricongiungimenti familiari e opportunità lavorative perdute. Ironia della sorte, rischierebbe di non poter mettere piede negli Stati Uniti anche Parvin Tadjk, moglie iraniana di Beppe Grillo. Padre di Teheran, madre di Ravenna, semmai avesse la doppia nazionalità o si fosse recata in uno dei Paesi banditi a partire dal marzo 2011, sarebbe al momento persona non gradita negli States. Proprio lì, dove detta legge il «leader forte» benedetto dal marito Beppe. (Francesco Lo Dico – Il Mattino)