Addio a Kounellis, pittore e scultore greco, maestro dell’arte povera. Lavorava su sacchi di juta, ferro e quotidiani pressati

17 febbraio 2017 | 16:28
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Addio a Kounellis, pittore e scultore greco, maestro dell’arte povera. Lavorava su sacchi di juta, ferro e quotidiani pressati

«Itaca tieni sempre nella mente. La tua sorte ti segna quell’ approdo», è scritto nei versi più intensi del grande poeta alessandrino Kavafis. E come Kavafis con le parole, con medesimo paesaggio interiore e genialità espressiva, Jannis Kounellis ha detto dell’umano con la pittura e la scultura. Intrecciando alle memorie, alle proporzioni del suo mondo […]

«Itaca tieni sempre nella mente. La tua sorte ti segna quell’ approdo», è scritto nei versi più intensi del grande poeta alessandrino Kavafis. E come Kavafis con le parole, con medesimo paesaggio interiore e genialità espressiva, Jannis Kounellis ha detto dell’umano con la pittura e la scultura. Intrecciando alle memorie, alle proporzioni del suo mondo greco i misteri delle civiltà semitiche, le equilibrate armonie del Quattrocento, le fosche ombre dei pittori del Seicento. Certo il grande artista, scomparso ieri poco prima di compiere 81 anni, non può stare compresso in una definizione, fosse anche quella di esponente di primo piano dell’arte povera che fu data di lui da Germano Celant. E questo per la complessità del suo approdo artistico che fondeva l’influenza dell’espressionismo astratto con l’arte informale e si completava con un’attitudine comunicativa altrettanto imponente quanto lo era lui, forgiata su una volontà di concepire l’atto artistico sempre e soprattutto in una dimensione collettiva, e per una destinazione popolare. La forza espressiva raggiunta dalle sue opere era tale da arrivare a chiunque anche per il veicolo dei materiali nelle declinazioni dei temi a lui cari: i sacchi di juta, i giornali pressati, le raccolte di immagini scelte in quadrerie parlavano di un’attitudine a «rivelare nascondendo: nei miei lavori, come nelle vicende della vita, è interessante vedere che cosa c’è dietro», disse in un’intervista alla nostra Alessandra Pacelli nel 2014, alla vigilia dell’inaugurazione della sua ultima mostra napoletana, a Casa Madre di Eduardo e Olivia Cicelyn. Lì Kounellis spiegava che le sue opere, pur del peso di tonnellate, le aveva sempre concepite come sospese «perché hanno un’anima e finché questa è viva il lavoro risulta leggero e si dimentica la sua pesantezza reale». Ma sempre al centro del suo lavoro, fin dalla famosa installazione del 1969 con i Cavalli legati alle pareti della galleria L’Attico di Sargentini, c’è stato il confronto-scontro fra natura e cultura che relega l’artista a un ruolo marginale, di osservatore al più impegnato a faticare per riprodurre ciò cui assiste. Il luogo mentale, emozionale e artistico in cui Kounellis ha ambientato tutto ciò è stato, non a caso, il Mediterraneo, interpretato in una dimensione simbolica e essenziale che lo ha fatto sentire di casa anche lontano dal Pireo, dov’era nato il 23 marzo 1936, a suo agio tra i segni classici di Roma, che aveva eletto a sua dimora, e tra le brezze di scirocco di Napoli, dove tornava ogni volta che poteva e dove nel marzo 1992, alla galleria di Lucio Amelio, allestì una sua mostra. La costruì basandosi sulla suggestione di un’antica foto che lo ritraeva a bordo di un battello da pesca nel golfo di Napoli e su quella di un lavoro che all’epoca non aveva completato, una barca di carta di quelle cui i bambini affidano i propri arabeschi. In un’intervista raccontò che aveva manipolato, trasfigurato, rovesciato i miti, le leggende e i ricordi che aveva avuto sempre più cari: il mare, il viaggio, la barca, la sua stessa corporeità. E c’era da rimanere affascinati osservando il titanismo del suo segno mediterraneo, il suo aggirarsi inquieto tra ombre e bagliori. A quell’epoca Kounellis si era già da una ventina di anni lasciato alle spalle l’illusione sulle potenzialità innovative dell’arte povera, che gli appariva fagocitata dal meccanismo mercantile e dal carattere prevalentemente commerciale dei musei e delle stesse gallerie: già negli anni Settanta aveva sentito il bisogno di esprimere il suo disincanto con l’installazione di San Benedetto del Tronto, in cui troneggiava una porta chiusa con le pietre. E nei successivi anni Ottanta l’artista aveva compiuto per intero il percorso dell’amarezza seguita alla disillusione e all’introspezione malinconica, culminato nell’esposizione di Barcellona, con quarti di bue appena macellati assicurati a dei ganci a lastre metalliche e illuminati da lampade a olio. Il periodo successivo, degli anni Novanta e dell’inizio del nuovo millennio, videro riapparire gli elementi e i temi tradizionali della sua ispirazione artistica, ma in una dimensione che molti critici hanno definito maggiormente meditativa. E l’ininterrotto bisogno di arte come comunicazione lo portò, nel 2007, a partecipare al Festino di Santa Rosalia a Palermo, disegnando il carro trionfale della santa. Artista dell’umano in ogni sua espressione, affascinato dal ferro come materiale-principe e simbolo di forza, non poteva non sentirsi sedotto dai segni espressivi più comunicativi della napoletanità. «Napoli per me è sempre stata una città speciale, dove tutti sono degli acrobati e il terremoto è una condizione di vita permanente», disse in un’intervista, spiegando come qui si fosse ispirato nella sua installazione per «Terra e Motus». E concluse evidenziando un altro segno profondo di consonanza mediterranea: «Qui non si butta mai niente, ogni cosa passata viene inglobata a costruire nuove modernità. A Napoli c’è il sudore dei secoli». (Il Mattino)