Napoli. Il suo bimbo morì durante il parto. Condannato il Secondo policlinico ad un risarcimento di 150.000 euro
Napoli. Antonio era vivo nella pancia di sua madre ma nel giorno in cui doveva nascere qualcuno, forse, ha commesso degli errori che però sono risultati fatali. Il giudice del tribunale Civile di Napoli ha condannato l’azienda ospedaliera universitaria Federico II di Napoli, il Secondo policlinico, a risarcire 150.000 euro a Valeria Aran e a […]
Napoli. Antonio era vivo nella pancia di sua madre ma nel giorno in cui doveva nascere qualcuno, forse, ha commesso degli errori che però sono risultati fatali. Il giudice del tribunale Civile di Napoli ha condannato l’azienda ospedaliera universitaria Federico II di Napoli, il Secondo policlinico, a risarcire 150.000 euro a Valeria Aran e a suo marito Luigi Mele che l’undici maggio del 2014 hanno perso il loro primogenito nella sala operatoria dell’ospedale napoletano. Un presunto caso di malasanità che sarebbe stato accertato da una perizia tecnica disposta dal giudice: la morte del feto era avvenuta in utero a seguito di «grave ipossia dovuta a sofferenza fetale durante il parto», sofferenza che, come scritto nella consulenza, «poteva e doveva essere diagnosticata diverse ore prima della morte tramite il tracciato cardiotocografico». Il bambino è morto per mancanza di aria perché non sarebbe stato praticato in tempo il taglio cesareo. Una ginecologa e un ostetrico sono dal 2015 sotto processo davanti all’undicesima sezione penale del giudice monocratico di Napoli per i reati di concorso in interruzione colposa di gravidanza e a breve dovrebbe essere pronunciata la sentenza di primo grado. Ma la battaglia degli avvocati Valerio e Paolo Minucci non è conclusa qui. Vogliono, innanzitutto la condanna dei (presunti) responsabili e intendono presentare appello in sede civile contro la sentenza che ritengono assolutamente non congrua. Puntano ad ottenere il massimo del risarcimento: 400.000 euro. «E non è solo una questione di soldi, ma di dignità della sofferenza», dicono. Cosa è successo quel maledetto 11 maggio di tre anni fa lo hanno scritto nelle quattro perizie gli specialisti nominati sia dalle parti in causa, che dai giudici. I coniugi, finalmente, coronavano il loro sogno d’amore concependo il loro primo figlio. Avevano scelto il nome, Antonio, e per la nascita avevano preferito la sicurezza di un ospedale piuttosto che una clinica privata. Avevano, su consiglio del loro ginecologo, scelto di affidarsi al dipartimento dell’università di Napoli dove, felici ed emozionati, il 9 maggio del 2014 si recarono per il tanto desiderato parto. Valeria aveva rotto le acque poche ore prima del ricovero ma la sofferenza durò quasi tre giorni. Dopo ore di travaglio il suo utero, nonostante le siringhe somministrate, non si dilatava e nessuno prendeva la decisione di praticare un taglio per il cesareo. Alle 4,30 dell’11 maggio l’incubo si materializzò davanti ai loro occhi. Antonio era morto. Partirono le denunce, gli interrogatori e le perizie. La Procura sequestrò le cartelle cliniche e la salma per disporre gli esami autoptici. Tre esperti medici arrivano alla stessa conclusione: Antonio poteva essere salvato. (Corriere del Mezzogiorno)