Surfant sur un son

13 marzo 2017 | 20:30
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Concerto in occasione del Centenario della nascita del M° Francesco Florio al Teatro Augusteo di Salerno Un testimone francese non poteva mancare alle celebrazioni del centenario della nascita di Francesco Florio, primo maestro, riconosciuto dallo stato italiano, di saxophone. In tour nel belpaese dei cugini italiani e ospite nella raccolta cittadina di Salerno, ho avuto […]

Concerto in occasione del Centenario della nascita del M° Francesco Florio al Teatro Augusteo di Salerno

Un testimone francese non poteva mancare alle celebrazioni del centenario della nascita di Francesco Florio, primo maestro, riconosciuto dallo stato italiano, di saxophone. In tour nel belpaese dei cugini italiani e ospite nella raccolta cittadina di Salerno, ho avuto la fortuna di assistere ad un concerto che ha rivelato le varie anime di questo strumento. Teatro Augusteo sold out in tutti gli ordini di posti e pubblico, giustamente in piedi, per partecipare ad un evento importante per la città, conosciuta in Francia non solo per la Scuola Medica, ma anche per essere stata centro divulgatore del sassofono, grazie all’impavido maestro, che è riuscito a tirar fuori dalle pastoie della banda, della musica leggera e del jazz, questo giovanissimo strumento, offrendogli il prestigio in ambito classico che meritava. Dal nulla, nel buio e nel silenzio assoluto che ci ha avvolto, la riproduzione del suono dell’alto saxophone del Maestro. Un suono che, a quei tempi, nel primo Dopoguerra, in Italia, non aveva potuto aver modelli, quindi creato dalla pratica, dall’ascolto e dalla fortissima convinzione di potervi racchiudere ogni suono dell’orchestra. Nei pochi minuti di ascolto della Pastorale Hongraise op.26 di Franz Doppler, un concerto per flauto e orchestra che Francesco Florio eseguiva con il sax, poiché non aveva conoscenza della letteratura dedicata al suo strumento, la pagina è risultata travolta da un tormentato bisogno di levitazione, i suoni sono cresciuti su se stessi, evocando a eco i legni, gli ottoni, gli archi, spandendosi per l’intero teatro, che ha vibrato di quelle note fuori registro che possedevano i bagliori dell’argento, controllate e vibrate, tornite, con evidenza e disarmante semplicità. Dopo questo storico preludio, una prima esecuzione assoluta: “The Wolves Breath”, del giovane compositore e saxophonista Paolo Carlomè, creato per un ensemble di dodici sassofoni, comprendente i tagli di maggior uso, dal sopranino al basso, formato dai docenti dei conservatori italiani. Il senso di ossessività minimalistica, sulle tracce di Steve Reich, è sventato qui con grazia leggera e incisiva, un’astrazione perseguita, in cui il compositore ha creato immagini a piccole taches sonore, che hanno ricordato la spaziatura cromatica e geometrica di un Mondrian. Mirabile l’esecuzione, quindi, di uno dei più amati brani d’assieme dedicati al saxophone, il “Petite Quatuor pour Saxophones” di Jean Françaix, ad opera delle prime parti della Banda Musicale dell’Aeronautica Militare, un viluppo sonoro che produce incursioni nelle squisitezze più ardue o verso la più corsiva comunicabilità che Domenico Di Biase, Sebastiano Ventriglia, Giuseppe Fiumara e Antonello Carrafelli hanno saputo squisitamente districare, in ogni infinitesima sfumatura, con un plauso particolare per l’interpretazione della Sérénade comique. Cambio di registro per il saxophone nel jazz. Apertura della seconda parte affidata a Mario Marzi, oggi il suono italiano di questo strumento, il quale, al soprano, sostenuto da una equilibratissima in tutte le sue sezioni, Big Band Swingtime, concertata dal figlio di Francesco Florio, Antonio, ha eseguito Etude for Franca di Gerry Mulligan. Arrangiamento particolare quello di Pino Jodice, che apre con un lungo solo, sul quale Mario Marzi, ha penetrato il sentire argentino di Piazzolla, con qualche stilema che ci ha ricordato Javier Girotto, prima di comporsi in un orizzonte limpidissimo, ricercando il flusso del suono, attraverso la respirazione circolare, scartando ogni indulgenza e qualsivoglia individuale vanità. Altra pagina di grande effetto è risultata “Tango Club” di Roberto Molinelli, arrangiata per big band dallo stesso Antonio Florio e affidata al suo allievo d’elezione Sebastiano Ventriglia, il quale ha infiammato il pubblico con una trascinante performance al sax alto, tra picchi di alta drammaticità e forza penetrativa e struggenti frasi in cui il ritmo serrato della danza, sottolineato dall’eccellente sax baritono di Nicola Rando, ha lasciato spazio ad una melodia lirica e introspettiva. La big band Swingtime ha, quindi, proposto una scaletta di non comune ascolto, voluta dall’ideatrice di questa serata Olga Chieffi, spaziando dal jazz della swing craze di Glenn Miller ad alcune gemme firmate da Duke Ellington, tra cui quattro brani tratti dalla The Nutcracker Suite, nella formazione e soprattutto nei soli originali scritti dal genio americano, che ha rivelato il suono fatto di miele e di fumo del sax tenore di Antonio Florio in Sugar, Rhum e Cherry e la sonorità quasi spirituale, gioco e significato d’un mondo, quello della musica e del palcoscenico, dove la vitalità non si piega mai, del suo sax alto, in uno dei cavalli di battaglia dell’insuperato Johnny Hodges, “The star crossed lovers”. Applausi a scena aperta e bis con saluti e un arrivederci, magari alla serata finale del I Concorso Internazionale “Francesco Florio”, sulle note travolgenti di Sing, Sing, Sing!

Pierre Marie Durand (critique musical “Echo Touristique”)

(trad. a cura red.cult)