La collera di Federico II foto

Federico sbarcò a Brindisi, il dieci giugno del 1229. La sola notizia che egli fosse vivo e sulla via del ritorno, aveva suscitato un’ondata di sgomento e paura in tutto il regno. La fuga dell’esercito dei clavigeri consentì ai contingenti imperiali di ripristinare l’ordine nel Mezzogiorno, senza il ricorso alle armi. Più amara sorte toccò […]

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    Federico sbarcò a Brindisi, il dieci giugno del 1229.

    La sola notizia che egli fosse vivo e sulla via del ritorno, aveva suscitato un’ondata di sgomento e paura in tutto il regno.

    La fuga dell’esercito dei clavigeri consentì ai contingenti imperiali di ripristinare l’ordine nel Mezzogiorno, senza il ricorso alle armi. Più amara sorte toccò al Papa che, sbugiardato, fu cacciato da Roma.

    Odiato dal popolo quanto dai nobili, Gregorio era finito prigioniero della trappola tesa allo svevo. Peraltro, la guerra personale, destinata all’infausto esito, aveva depauperato le sue finanze ed anche i rapporti con i lombardi si erano incrinati: quei ribelli, che avevano sostenuto la sua insaziabile sete di potere, erano venuti a trovarsi ora in posizione di aperto scontro con un Imperatore agguerrito e furente.

    Il contesto politico internazionale, infine, cui il Papa si era rivolto per aggredire il Sud dell’Italia in assenza dello svevo, lo aveva messo alla porta. La sua condotta proclive addirittura agli infedeli, pur di stroncare lo Staufen, aveva gettato la Chiesa in un impopolare isolamento, ed acceso, nelle masse, ribellione e rifiuto. Mai un Pontefice si era spinto così oltre le regole della Cristianità e della morale.

    Gregorio, sovvertendo l’ordine civile in molte città, aveva diffuso notizia della morte certa dell’Imperatore. Ne aveva affannosamente cercato un successore. Aveva sciolto anche i suoi sudditi d’Oriente dal vincolo di fedeltà all’Impero. Aveva istigato gli Ordini Minori ad una campagna di calunnie, cui aveva aderito Giovanni di Brienne.

    La sua ansia antisveva, lo aveva indotto, invano, a rivolgersi alle Chiese di Scandinavia, Inghilterra e Francia, per ottenere finanziamenti per sconfiggere Federico, il nemico principale di quel tempo, attraverso la realizzazione di una epica crociata, conclusa senza lo spargimento di una sola goccia di sangue. Gregorio era il solo grande sconfitto.

    Una volta a Barletta, Federico organizzò i contingenti di sostegno a Rinaldo da Spoleto, che da solo si misurava con le milizie papali dislocate in Campania.

    I Cavalieri Teutonici ed i fedelissimi saraceni di Lucera si affrettarono a prestare soccorsi al conte Tommaso d’Aquino ed al Gran Giustiziere Enrico Morra, impegnati nella difesa delle frontiere del Sud.

    Cavalieri Teutonici

    Assunto il comando delle operazioni belliche, l’Imperatore non trascurò i suoi doveri diplomatici e scrisse una lettera personale a Fahr Ed Din. Il contenuto è significativo della sua accorta personalità politica: “…Il temuto Cesare, l’Imperatore di Roma, Federico, nipote dell’Imperatore Barbarossa, vittorioso per grazia di Dio, potente per Sua volontà e deliberazione, innalzato dalla provvidenza celeste, re di Germania, di Toscana e Lombardia, d’Italia, di Longobardia, di Calabria, di Sicilia e di Gerusalemme in Siria, sostegno del Sacerdote di Roma e difensore della religione del Messia… Noi non possiamo parlare della pena che l’affetto ci fece patire, né della profonda malinconia che in Noi si insinuò, e quanto rimpiangiamo la felice presenza di Fahr Ed Din: Dio prolunghi i suoi giorni… Sappiamo che la Vostra Magnificenza volentieri apprende notizie che Ci riguardano… Come già Vi spiegammo a Sidone, il Papa, nuovamente ricorrendo alla perfidia e all’inganno, si impadronì di una delle nostre più agguerrite fortezze, Monte Cassino… Il Papa si vide costretto a diffondere la notizia della Nostra Morte e fece giurare ai cardinali che effettivamente essa era avvenuta e mai Noi saremmo potuti tornare.Con simili inganni irretirono il Popolo aggiungendo che, dopo la Nostra scomparsa, nessuno meglio del Papa era in grado di regnare sui Nostri dominii per serbarli al Nostro figliolo… Abbiate la bontà di inviare i Nostri saluti a tutti i capi dell’esercito, ai Vostri figli, ai Mamalucchi e a tutta la servitù della Vostra casa! Alla Vostra Magnificenza auguriamo la grazia, la misericordia e la benedizione dell’ Onnipotente.” (Scritto in Barletta, Dio la guardi!, il 23 agosto del 1229).

    Inviata la missiva, mirata ad evidenziare la sua lealtà nei confronti di un Papa pur tanto fazioso, Federico si pose personalmente a capo delle truppe in marcia verso Capua.

    La sua galoppata lungo il Tavoliere pugliese, i monti del Miscano, e le valli del Calore e del Volturno, non trovò focolai di resistenza. Clavisegnati e contingenti lombardi si dileguavano, al suo solo approssimarsi. Lo stesso Giovanni di Brienne, avuta notizia della sua marcia punitiva, si rifugiò entro i confini della Chiesa. Solo Pelagio di Albano, Legato Pontificio di Monte Cassino, provò a sbarrargli il passo, prima di deporre le armi.

    Sora, la prima delle città colpevoli di tradimento all’Impero, venne rasa al suolo e data alle fiamme. La spietatezza con la quale tutti i suoi abitanti furono passati a fil di spada, indusse oltre duecento città alla capitolazione spontanea. A parte l’emblematica punizione inflitta alla cittadina laziale, lo Staufen fu clemente con tutti gli altri centri ribelli, malgrado decretasse la distruzione di Gaeta, incaricando i saraceni di Lucera di accecare i ribelli e le loro donne, e di evirarne i figli. Non v’è riscontro che quella sentenza trovasse effettiva applicazione. È certo che il duro messaggio pervenne agli insorti, in forma tanto chiara che, in meno di tre mesi, il regno fu recuperato e la pace vi si riconfermò, consentendo ad Ermanno di Salza di riprendere le vie negoziali col Papato.

    Le trattative durarono otto mesi e, benché sembrassero arrivare ad una svolta, si arenarono ancora nell’inizio dell’estate del 1230. Gregorio, per quanto consapevole di essere stato espulso dal circuito politico e diplomatico internazionale, si negava con ostinazione al dialogo, restando fermo sulle sue posizioni di rifiuto della pace e pensando di sfruttare audacemente la disponibilità dello svevo.

    Ermanno, allora, ricorse alla solidarietà della Grande Feudalità Tedesca, chiamandola a garantire che Federico, ove si fosse conclusa una pace col Pontefice, si sarebbe impegnato a mai più infrangerla.

    Le pressioni esercitate dai cardinali e gli sforzi del notabilato germanico, consentirono al Papa di salvare la faccia e di alzare il prezzo dettando, pur da perdente, arroganti condizioni: la garanzia della impunità, per i suoi alleati e per quanti altri lo avevano sostenuto nella campagna antisveva; la esenzione di tutto il clero siciliano dai tributi; il principio della non interferenza imperiale, nella elezione dei vescovi; la restituzione di tutti i beni incamerati dalla Corona ed espropriati al Patrimonio di San Pietro, ai Templari ed ai Giovanniti; la cessione di alcune fortezze ubicate sui territori di confine fra Chiesa e regno.

    Nessun aperto riferimento egli fece alla spinosa questione lombarda.

    Le sue pretese, al cui assecondamento era subordinato il perdono, non eliminavano le ragioni profonde del conflitto, ma miravano ad evitargli un drammatico mea culpa e l’ammissione pubblica del suo discutibile operato. Federico collaborò.

    Era consapevole che, accettandone le richieste, il protervo Gregorio si sarebbe trasformato da aggressore a debitore, nei confronti dell’Impero.

    Era vitale, ora, per la sua autorità imperiale, confermare ai sudditi la sua generosità e ai sovrani europei l’esigenza spirituale di riconciliarsi con la Chiesa.

    La pace fu sottoscritta il 23 luglio, nell’abbazia di San Germano.

    Lo svevo aspettava il ritorno della delegazione imperiale a Rocca d’Arce, città frontiera fra i due Regni, situata sulle sponde del fiume Garigliano. Soddisfatto, ed in compagnia di Ermanno e dei vescovi di Winchester, Mantova, Reggio e Modena, che avevano composto l’ambasceria, Federico riprese la via del Sud, mentre a Ceprano, il 29 agosto dello stesso anno, il vescovo Giovanni di Sabina ed il cardinale Tommaso di Capua, già vescovo di Napoli e poi Patriarca di Gerusalemme, gli revocavano solennemente la scomunica.

    Il nodo delle difficili trattative fu definitivamente sciolto, in occasione dello storico incontro che lo Staufen ed il Papa, in settembre, tennero ad Anagni, ove scambiarono il bacio della pace e, nell’alloggio privato papale, pranzarono e mantennero un lungo dialogo, teso ad assicurare la reciprocità del perdono.

    Dopo tale evento, nel corso del quale certamente gli avversari ebbero modo di conoscersi e misurarsi, il Pontefice ordinò al Patriarca di Gerusalemme di ratificare il concordato sottoscritto da Federico e da Al Kamil, e di rispettarne ogni clausola. Indi, sollecitati Gioanniti e Templari ad una più rispettosa condotta nei confronti della maestà imperiale, egli stesso sciolse Gerusalemme dall’interdetto.

    La crociata dello scomunicato, finalmente, otteneva il riconoscimento storico della Chiesa e l’Imperatore “eretico”, il seguace di Maometto e degli infedeli, poteva essere finalmente accolto nella comunità cristiana, come “l’amato Figlio Nostro e della Chiesa”.

    Gregorio avrebbe continuato a covare odio, ma a trentasette anni, Federico aveva guadagnato il rispetto e la considerazione di tutte le sovranità europee, presso le quali era reputato uomo della pace ed autore di quel benessere epocale, testimoniato dall’apertura ad ogni espressione di civiltà. L’Impero, con il credito di cui disponeva in questa fase storica, era la prova certa che non potevano più coesistere due poteri universali. Che, pur contro ogni disperata lotta, l’uno doveva cedere il passo all’altro. Che toccava alla Chiesa, ormai, accettare il ruolo in subordine.

    Trasformata in un centro attivo di fermenti, forte di giuristi, astrologi, matematici, letterati e filosofi e poeti, la Corte sveva sfidò l’intera Europa, fornendo un notevole contributo anche alla formazione della lingua italiana.

    Innamorato della cultura bizantina ed islamica, Federico II, che ben conosceva volgare siciliano, latino, arabo, tedesco, greco, provenzale ed ebraico, fu appassionato ed attento cultore dell’esoterismo, della filosofia, della geografia, delle scienze e, in particolare, dell’astronomia e dell’astrologia. Ma, ebbe particolarmente caro, lo studio della materia giuridica.

                  

    Il ritorno dalla Terra Santa, aprì anche una nuova stagione architettonica, attraverso la costruzione dei castelli e dei casini di caccia di Sant’Agata di Puglia, meta residenziale prediletta, Deliceto, Orta Nova, Vico, Gravina, Gioia del Colle, Oria, Bari e dello straordinario capolavoro che è ancora la cattedrale di Altamura. Altre chiese dell’architettura romanico/normanna pugliese furono ristrutturate: Bitonto, Ruvo, Troia, Venosa, Siponto.

    L’Imperatore aveva già fissato la propria residenza a Foggia alternandola, durante i periodi di calura, a Melfi ove si dava a frequentissime battute della caccia al falcone.

    Quando avesse consolidato nuovamente l’ordine all’interno dell’intero regno, si sarebbe dedicato al ripristino delle regole, anche in Germania ed in Lombardia.

    Dal suo viaggio verso le regioni nordiche dei suoi padri, quando era solo il giovane Puer Apuliae, all’essere diventato l’uomo più importante del suo tempo, ammirato e stimato in Oriente, non meno che in Occidente, aveva fatto molta strada.

    La sua straordinaria fortuna fu quella di essere amato dal suo popolo meridionale, che lo considerò l’erede della più alta tradizione imperiale romana. Ed era un amore, una identificazione reciproca.

    Il Sud era il suo grembo, la sua più amata famiglia. Bisognava, con amorosa gratitudine, portarlo ad una condizione di primato universale, in tutti gli aspetti della organizzazione della vita dello Stato.

    Definita la pace col Papa, Federico intese dedicarsi al suo primo ed indifferibile impegno: la instaurazione di una giustizia, che fosse soggetto attivo e portante della imponente impalcatura amministrativa.

    Ordine e pace, come premessa al benessere, furono gli elementi sui quali ispirò la revisione dell’intero apparato giudiziario. Il programma contenuto negli Editti di Capua divenne la proposizione più utile alle Constitutiones Regni Siciliae, che l’Imperatore emanò a Melfi, donde ci furono tramandate come Costituzioni Melfitane.

    Come già scritto, è una raccolta delle migliori disposizioni legislative normanne, integrate dagli Editti Capuani e da note dei giuristi di Corte. Il regno veniva ad assumervi carattere burocratico, sicché, ferma restante la totale autorità del re, veniva riconosciuto il potere di delega a suoi rappresentanti o funzionari.

    La gerarchia era rappresentata da una prima Magna Curia, o Tribunale Supremo della Giustizia, e da una seconda Magna Curia Rationum, equivalente ad una sorta di Corte dei Conti, delegata all’amministrazione finanziaria, centrale e periferica. La cuspide della Curia Giudiziaria era presieduta da un Gran Giudice, Capo del Tribunale Supremo, da cui dipendevano i Giustizieri, ovvero giudici e capi di polizia, assegnati alle Province. La seconda Curia era invece gestita da un Gran Camerario, che curava gli affari economici e civili e ne sorvegliava la tutela, attraverso l’opera dei Baiuli, funzionari a mansioni miste.

    Gli Editti Melfitani furono un duro colpo per la Chiesa che, impedita nell’acquisto di terre ed autorizzata a pronunciarsi solo su questioni relative alla morale, ne usciva piegata al fisco ed alla giurisdizione regia.

    Attraverso le Costituzioni, considerate modello di Stato per tutto l’Occidente e primo completo codice statale europeo, Federico apportò una serie di innovazioni, prima fra tutte l’introduzione dell’augustale. Questa moneta, coniata negli anni del trionfo, fu la prima aurea dell’Occidente, dai tempi dei re Carolingi. Destinata a sostituire il normanno tarì, ritraeva il volto dell’Imperatore, il cui capo era circondato da un serto di alloro, mentre le spalle erano coperte dal manto augusteo. Il retro riportava l’aquila romana e la scritta Imp/Rom/Cesar/Aug. Il netto richiamo alla memoria del grande Cesare Augusto Romano, era mirato a riproporre il concetto di una metafisica della sovranità assoluta. Direttamente collegata al carattere divino della missione imperiale, sulla base della revisione del principio agostiniano della Civitas, nella quale la “Necessità Naturale” veniva ad integrarsi con “la forza delle cose o degli eventi”, tale rivoluzionaria visione veniva a teorizzare che il potere non era più fondato solo in Dio, ma anche nella contingenza del compiersi quotidiano. In sostanza, il sistema di pensiero laico finiva con l’accorpare quello cattolico e col privilegiare il significato autonomo dell’Uomo, nei rapporti con la Chiesa, ingenerando nuove e vivaci reazioni di protesta, nel diffidente Papa Gregorio IX.

    Particolare rilievo, nelle Costituzioni melfitane, ebbe il reato di usura.

    “Nello stabilire la punizione connessa alla disonestà degli usurai, già condannata dalle sentenze dei santi Padri, contro coloro che non si avvalgono del denaro come strumento dell’onesto vivere civile, ma, per dirlo in modo appropriato, ne abusano, Noi aggiungiamo alla vendetta divina questo atto di maestà imperiale, che avochiamo a noi per volontà celeste. Imponiamo fermamente a tutti i sudditi del regno, con questo nostro editto, nonché agli stranieri che vi abitano provenienti da altre nazioni, che nessuno osi in avvenire mutuare pubblicamente o nascostamente il proprio denaro ad interesse, per sé o per altri, imponendo usure piccole e grandi… Noi ordiniamo che chiunque nel regno viene riconosciuto usuraio, deve essere condannato alla confisca di tutti i beni mobili ed immobili… Da questa sentenza noi escludiamo soltanto gli ebrei per i quali l’interesse non può essere considerato illecito-dato che la loro legge religiosa non lo proibisce- in quanto non soggetti ai canoni dettati dai nostri beatissimi Padri. Agli ebrei imponiamo un limite che non dovranno trasgredire nella pretesa dell’usura…” ( Federico II)

    A partire da quella fase, Pier delle Vigne, impegnato nell’ambito del nuovo progetto di diritto, divenne il più influente consigliere di Federico II. Il suo costante impegno di lealtà verso l’Impero, gli valse presto la nomina a Logoteta del regno: la più alta forma di riconoscimento fiduciario, quella di portavoce, con piena delega alla esecuzione di tutte le volontà dello svevo. Pietro aveva studiato diritto canonico e civile all’università di Bologna ed era entrato al servizio di Corte su segnalazione di Berardo, arcivescovo di Palermo. Cominciata la carriera dal grado più basso, quello di scrivano, aveva raggiunto l’incarico di notaro, maturato per le sue enormi capacità e per le solide conoscenze in materia di retorica, di diritto e di filosofia. In dieci anni avrebbe saputo rappresentare l’ideale del consigliere indispensabile ed insostituibile. Parlava il latino, con tale abilità da suscitare l’entusiasmo ammirato dell’Imperatore. Il transfert, intervenuto fra i due, contribuì a radicalizzare la fridericea convinzione messianica dell’Impero. Pietro si pronunciò su tutta la legislazione amministrativa e burocratica del regno ed in tutte le innovazioni apportate anche alla politica agraria ed al vecchio diritto feudale. La legge imposta dal più forte perdeva di valore, sostituita dall’obiettivo di tutelare i deboli ed impedire lo sfruttamento indiscriminato dei servi. Ancora Pietro fu parte, se non ispiratore, del progetto di totale emancipazione dalla Chiesa; del complessivo processo di laicizzazione statale e dell’integrazione definitiva delle città nel sistema regio della giustizia e della tassazione.

    Sulla scia dei normanni, Federico aveva perseguito, con convinzione, il suo programma unitario: uno Stato fondato sul principio dell’uguaglianza, a metà strada fra l’ideale della Repubblica di Platone e la Città di Dio di agostiniana memoria. Ma, le insidie covavano.

    Nella fase successiva alla pace col Papa, l’Imperatore rappresentò il protagonista della più grandiosa e tenace ribellione, contro quella Chiesa secolarizzata, che per trentaquattro anni di un regno esemplare quanto avventuroso perseguitò il tragico destino degli Hohenstaufen. Per quanto contraddittori ancora i giudizi, è ben certo che lo svevo, dotato come fu di spirito ardente e passionale, di alto senso dello Stato e, soprattutto, di una deontologia imperiale senza precedenti, visse al di sopra della sua realtà storica.

    I tempi non erano ancora maturi perché la laicità del suo pensiero non fosse travolta dalle contromisure adottate dal potere temporale. Il contenuto delle Costituzioni di Melfi, pur perseguendo un progetto di civile rinnovamento, aprì il terribile conflitto fra l’Impero e quel Papa Gregorio IX, che non perse l’occasione per bollare Federico II come persecutore della Chiesa e delle libertà civili, aizzando i Comuni alla rivolta. A fronte dell’ingiusto ed ulteriore tentativo di prevaricazione, lo svevo, che portava in sé certezza morale del proprio operato, erede della liberalità del nonno normanno Ruggero, e della protervia accentratrice del nonno tedesco Barbarossa, esercitò una esemplare prova di forza, facendo radere al suolo Centuripe e Montalbano ed ordinando la deportazione degli abitanti, nella costruita città di Augusta.

    Egli non riusciva a disgiungere dalla visione assolutistica che ebbe in sé, la funzione di Imperatore padre, figlio, signore e servo, di quel popolo cui dispensò giustizia, in ogni caso. Tale sintesi di ruoli, che avrebbe portato i tempi ad una svolta del costume e della morale, si risolse in una contrapposizione ideologica ai valori propugnati dalla Chiesa. Ove essa riconduceva al peccato originale l’ereditarietà della colpa, Federico teorizzava la improponibilità del peccato originale. La cacciata dal paradiso aveva pareggiato i conti, poiché alla colpa aveva fatto seguito la punizione, utilizzata da Dio per riaffermare le regole. Al pari, amministrando la giustizia, Federico, in dispregio della mondanità ecclesiale, si poneva in terra correttore delle colpe; erogatore delle sanzioni e restauratore del nuovo ordine di una Umanità che fosse unita dalla stessa fede, senza il ricorso ai sacerdoti. In questa revisione teologico/morale, la funzione imperiale si saldava a quella sacerdotale, in un gioco delle parti mirato ad affermare, costantemente, il ruolo messianico dell’Imperatore, lex animata in terra e, come tale, unico ed autentico rappresentante di Dio.

    La “necessità naturale”, attenta alla fede ed alla ragione, veniva a proporsi come razionalizzazione dei dogmi e delle prescrizioni destinate a preservare il futuro del genere umano. È evidente come tali precetti fossero gravidi di negative conseguenze per i rapporti fra l’Impero e la Chiesa, espropriata del potere di controllo sulle coscienze.

    La infallibilità dei Papi lasciava posto alla nuova immagine di un Imperatore che si riteneva pressocché pari di Dio. Il rivoluzionario concetto emergeva già fin dalle prime pagine del Liber Augustalis ove, come Dio modella la materia, l’Imperatore modella i sudditi, per trasformarli in perfetti cittadini. La sovranità della ragione, posta come deificazione della giustizia, accanto alla triade Dio, natura ed uomo, proponeva l’estensione dei precetti divini attraverso il compiersi degli eventi naturali, alla cui comprensione e applicazione è delegato l’uomo.

    Questo principio di metafisica politica, introdotto da Federico II, e la conseguente ricostruzione dei ruoli e dei rapporti con la fede, scatenò la Chiesa che, ridotta ad apparato esigente la protezione dell’Imperatore, e relegata nella sola funzione di sostegno alle attività imperiali, denunciò l’eresia, la dissacrazione e la ribellione dello Staufen.

    La guerra che ne sarebbe scaturita, combattuta senza risparmio, manifestò i suoi primi sintomi nella lettera allarmata che Papa Gregorio indirizzò all’Imperatore: “…di tua iniziativa, o fuorviato da mali consiglieri, intendi proclamare nuove leggi, donde necessariamente segue che Ti si deve chiamare un persecutore della Chiesa e un sovvertitore delle libertà dello Stato e che, in tal modo, con le medesime Tue forze Tu infierisci contro Te stesso… Noi fortemente temiamo che la grazia di Dio Ti abbia abbandonato…” Altrettanto aspri richiami furono rivolti all’arcivescovo Giacomo da Capua, colpevole di aver concorso alla stesura delle Costituzioni, venendo meno alla tutela degli interessi della Chiesa. Ma, in quella fase di trionfo internazionale e di consenso popolare, a Federico ed ai suoi fedeli collaboratori era a cuore solo il benessere del regno.

    Fonte:Federico II di Hohenstaufen di Ornella Mariani
     Edizioni Controcorrente

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