Al via il Festival di Musica da Camera del Conservatorio G.Martucci
Studio Apollonia: riti di passaggio. Dodici appuntamenti con la cameristica dal 30 maggio all’11 giugno nella chiesa di Santa Apollonia di Salerno alle ore 20 Ogni rito ha a che fare con il sacro, con la metamorfosi con il cammino che porta al cambiamento interiore attraverso passaggi obbligati ritmati e sottolineati, quasi a segnare le […]
Studio Apollonia: riti di passaggio. Dodici appuntamenti con la cameristica dal 30 maggio all’11 giugno nella chiesa di Santa Apollonia di Salerno alle ore 20
Ogni rito ha a che fare con il sacro, con la metamorfosi con il cammino che porta al cambiamento interiore attraverso passaggi obbligati ritmati e sottolineati, quasi a segnare le stazioni di una evoluzione, dallo stadio di ragazzo ad uomo, da allievo a quello di professionista. Una di queste tappe, per gli studenti del Conservatorio “G.Martucci” di Salerno, è rappresentata dal palcoscenico della chiesa di Santa Apollonia, ove per una felice intuizione dell’indimenticato Peppe Natella e della sua Bottega San Lazzaro, di concerto con la ferace creatività del dipartimento di Musica da Camera, quattro anni fa nacque questa rassegna cameristica, che fa da preludio al “passaggio” alla bella stagione. Ben dodici le serate che spazieranno dal Romanticismo al secolo breve, sino alla produzione contemporanea e che vedranno alternarsi sul palcoscenico oltre sessanta musicisti tra archi, fiati, tastiere, voci. Concerto inaugurale il 30 maggio con diversi ensemble di fiati a confronto, a cominciare da un sestetto di clarinetti impegnato nell’esecuzione di “Ballad” una pagina scritta nel 2016 da Antonio Fraioli, per poi confrontarsi con Stefano Melloni, autore di Five Sketches, nuove conversazioni sull’idea di ritmo e melodia. Un ragtime per piano solo, Encore Rag, datato 1912, trascritto da Tad Fischer e arrangiato per clarinetto due sax alti, due tenor sax e due sax baritoni da Jacques Larocquel, per passare, quindi, al Kurt Weill del Die Dreigroschenoper, una delle produzioni più complesse e di successo di questo festival, con la Zuhalterballade, la ballata del Magnaccia, che farà da introduzione ad un florilegio di melodie tratto dal songbook di George Gershwin, omaggio ad un genere che ha indovinato e scoperto i mille volti delle ance. Ritorno al classico con l’evocazione della Deuxieme Suite di Theodore Dubois, baciata dalla vaietà dei timbri, dai contrasti e dalle combinazioni di densità sonore, prima di lasciare spazio al nonetto per l’esecuzione di una marcia di Daniel Léo Simpson e di un undicimino di fiati, che chiuderà con l’esecuzione di alcuni estratti dell’Inno delle Nazioni di Giuseppe Verdi, un augurio all’Europa Unita, trascritti da Michele Mangani. Il 31 maggio sarà dedicato alle sonorità francesi a cominciare dalle Chansons madécasses di Maurice Ravel, ispirate all’isola di Madagascar, un trittico unificato, in un certo senso, dall’impiego di materiale musicale comune in Nahandove e in Il est doux; il trattamento lineare dei tre pezzi si accoppia a una specie di primitivismo di cui è un aspetto l’uso estensivo della ripetizione degli accompagnamenti, secondo però una strategia d’attenta misura. A seguire Deux Stèles oriéntées del raffinato Jacques Ibert non alieno da influenze neoclassiche, Cantilène et danse dell’algerino Marc Eychenne, datato 1961, in cui si riconoscono chiari echi raveliani, con il gran finale affidato al Trio n°2 di Russell Peterson, 4 movimenti dedicati a Ravel, Maslanka, Beethoven e Shostakovich. Giugno sarà aperto da due Trii. Serata inaugurata dai Phantasiestucke op.88 di Robert Schumann, opera non poco fascinosa anche se poco eseguita, che rappresenta una sorta di compromesso tra le grandi forme sonatistiche tradizionali e la raccolta di piccoli pezzi, anche se i suoi quattro movimenti sono legati tra loro dal punto di vista armonico tonale, per poi lasciare il testimone al Trio in Re minore op.32 di Anton Arensky per violino, violoncello e pianoforte scritto in memoria del grande violoncellista virtuoso Karl Davidov, un buon esempio della capacità di Arensky di comporre melodie meravigliose, che ha reso le sue numerose composizioni così attraenti. Il 2 giugno, ancora una serata dedicata all’Impressionismo francese con le più talentuose voci del nostro conservatorio, interpreti delle mèlodies, in cui Gabriel Faurè sembra privilegiare toni sommessi e delicati e dimensioni intime e contenute, di Claude Debussy, con Les Cloches, la Nuit di Ernest Chaussons e la proposta finale del sestetto di Francis Poulenc, frizzante e virtuosistico, in cui fiati e il pianoforte non sono in contrapposizione, si pongono in un continuo dialogo frammentato tra piccoli raggruppamenti strumentali, ottenendo così suoni sempre cangianti, non trascurando accenni al Jazz né alla tradizione colta, come possiamo notare nei due interventi quasi “gregoriani” del fagotto. Serata Schumann il 3 giugno con l’esecuzione dei Phantasiestucke op.73, improntati ad una connotazione lirico-nostalgica, seguiti da un florilegio dei Dichterliebe op.48, caratterizzati da una omogenea fusione tra il canto e la parola, di cui la musica vuole sottolineare ogni sensazione, e ogni nuage della sensazione e ogni particolare di quella stessa sfumatura. A sigillo della serata il Quintetto in Mi bemolle maggiore op.44, l’unico che riunisca il pianoforte e la classica formazione del quartetto per archi, si erge come un lavoro superbamente riuscito, tanto spontaneo e toccante nell’emozione quanto equilibrato e chiaro nella tessitura. La pienezza del sentimento che sembra dominare da cima a fondo la partitura risveglia immagini di marcato senso romantico, ma si presta anche a un’indagine psicologica più minuta e interiorizzata, oscillando tra esuberanti esplosioni di felicità e cupe depressioni, in cui sembra riapparire tutta la tragedia della realtà. “Passaggi” contemporanei il 4 giugno con protagonista il quartetto di sassofono con “hottista”, per dirla all’antica. Il clarinetto improvviserà su Che? Di Sauro Berti ed Engrenages di Alexandros Markeas, mentre sarà proposto un tributo a John Cage con il pianoforte preparato di And the Earth shall bear again e Five, autore, questo, che intende l’arte non come autoespressione ma quale automodificazione: “e ciò che altera è la mente, e la mente è nel mondo e costituisce un fatto sociale…Noi cambieremo in modo meraviglioso se accetteremo le incertezze del cambiamento: e questo condizionerà qualsiasi attività di progettazione. Questo è un valore” (John Cage). Si procederà con The Garden of Love di Jacob ter Veldhuis dper sax soprano e radioregistratore, per chiudere con la Serenata per un Satellite di Bruno Maderna. La sera del 1 ottobre 1969 il satellite ESRO I B Boreas, vanto dell’ingegneria aerospaziale italiana, viene lanciato in orbita dall’European Space Operation Center di Darmstadt. Darmstadt all’epoca è anche la capitale europea della Neue Musik, e in quella stessa sera uno dei più geniali ed estrosi rappresentanti di tale musica, il genio veneziano, lancia nel cielo della città la sua Serenata per un satellite… Lo spazio qui conquista anche la partitura: spezzoni sonori gettati alla rinfusa sul foglio, come in un allegro tiro di dadi, materiale messo a disposizione degli esecutori/giocatori (players in tutti i sensi). Sono questi a decidere di volta in volta quali e quanti strumenti utilizzare, gli attacchi, le successioni, la durata, cooperando con i loro interventi estemporanei alla ri-creazione sempre nuova e diversa del brano. I tasti del pianoforte sono Blanc et Noir e il 6 è la volta del pianoforte a quattro mani. Anche gli animali hanno il loro Carnevale ed è quello, famosissimo, messo in musica da Camille Saint-Saëns per il martedì grasso del 1887 e tuttavia mai eseguito pubblicamente mentre l’autore era in vita – per sua esplicita scelta. Le prime esecuzioni integrali di questa straordinaria “fantasia zoologica” suddivisa in 14 brevi schizzi musicali, ebbero dunque luogo nel 1922: 36 anni dopo che Saint-Saëns la compose, in quel di Vienna, durante una breve vacanza. Seguiranno Trois mouvements de Pétroucka di Igor Stravinskij uno dei pezzi di maggior impegno virtuosistico e al tempo stesso di maggior forza evocativa e fantastica di tutto il Novecento pianistico. Ospite di questa IV edizione del festival sarà il 7 giugno, il Quartetto Felix. Per il pubblico di Studio Apollonia gli strumentisti hanno scelto il Brahms del Quartetto in Do Minore op.60, in cui si può vedere una summa della sua arte nella sua piena maturità, che non abbandona mai completamente gli schemi classici ma se ne allontana in continuazione, per seguire la libera fantasia o l’emozione del momento, e unisce senza sforzo apparente la foga giovanile e la completa maestria della scrittura, posseduta in sommo grado a poco più di quarantanni d’età, e il William Walton del Quartetto in Re Minore, un’opera vivace e comunicativa, riferibile a modelli autoctoni quali Elgar, Delius e Vaughan Williams. Quartetto di clarinetti in scena l’8 giugno, con il Quatuor di Pierre Max Dubois, dalla fresca ed efficace invenzione, i virtuosistici Six pièces d’audition di Jean Michel Defaye, i due Quartetti di Ernesto Cavallini, ove echi del cabalettismo operistico si fondono al manierismo brillante dell’epoca. In chiusura, ancora un quartetto stavolta di Endresen e Trois divertessement di Henri Tomasi ispirati da una melodia corsa che meritano di essere eseguiti con più regolarità. Ritorna il 9 il romanticismo vocale e strumentale con il trio in Re minore op.49 di Felix Mendelssohn, maestria nella forma, scrittura di ogni singola parte profonda e mai scontata nell’esposizione delle idee, ricca di personalità emotivamente “calda”, nel segno di un toccante lirismo cameristico. In scena le voci con Der Hirt dem Felsen di Franz Schubert, un esperimento isolato di Lied con accompagnamento di pianoforte e clarinetto, che Schubert fece nel 1828, l’anno della morte, e Zwei Gesange op. 91 di Johannes Brahms, un itinerario psicologico vero e sincero dell’artista, a tu per tu con i propri sentimenti, ora affettuosi ora malinconici, ora amorosi ora idilliaci, ora commossi e ora gravi e seri, sotto l’incubo del pensiero della morte. Debutto del Coro del Conservatorio diretto da Maria Cristina Galasso con Dirait on da le chansons de roses di Morten Lauridsen che tesse insieme due idee melodiche prima sentite in forma frammentaria nei movimenti precedenti e la celeberrima Ave Maria di Astor Piazzolla. 10 giugno in ensemble con l’esecuzione del Sexteto Mistico di Hitor Villa Lobos, il quale partendo dal neoclassico mostra cronologicamente l’evoluzione del linguaggio del compositore brasiliano. Ancora un portrait di Francis Poulenc con i Deux poémes de Louis Aragon scritti nel 1944 sui versi del poeta surrealista Louis Aragon in cui notiamo una convergenza delle nostre lingue fonetiche (francese, tedesco, inglese) e del linguaggio musicale universale. Poulenc ha trovato un modo per rappresentare il non-musicale in un modo musicale, prendendo due lingue e trasformandole in una. Finale di giornata con l’allegro elefantino Babarschizzato sempre dal genio francese. Si narra infatti che una nipotina di quattro anni gli avrebbe messo sul leggìo del pianoforte il primo album di Babar, stufa della musica che gli sentiva suonare, e cominciò per gioco a commentare le figure dell’album con degli accordi, catturando l’attenzione di tutti i bambini presenti. Fiati all’opera a sigillo del festival, l’11 giugno, con formazioni estese di fiati, impegnate in un omaggio a Giuseppe Verdi col Preludio della Traviata, e la preghiera dall’Otello, la Petite Symphonie di Charles Gounod op. 2016, una piacevole e deliziosa composizione musicale e conferma lo stile essenzialmente melodico del soave artista parigino, perfettamente a suo agio nell’elaborare contrappuntisticamente i temi e svolgerli con quell’elegante gusto della strumentazione, mirante a porre in evidenza il profumo timbrico dell’invenzione armonica. Si continuerà con le Danze d’Italia op.39b di Renato Grisoni, che rilegge le danze rinascimentali, e per finire la preghiera di Tosca, il Vissi d’arte e la sinfonia dall’Opera Luisa Miller, che possiede una delicatezza d’espressione inconsueta nelle opere del Maestro; grazia accorata e rassegnata mestizia sono i colori perspicui della partitura. L’esperienza della musica da camera è un’esperienza che forma la persona ancor prima del musicista e che quando non vissuta a fondo, lascia segni evidenti nelle personalità degli interpreti. In un tempo in cui dominano la fretta, la superficialità e il materialismo, chi ama profondamente la musica sa di possedere ancora questo esclusivo angolo di felicità.
Olga Chieffi
Resp.le sezione musicale
Studio Apollonia