Primo giorno di libertà per Chelsea Manning. Scarcerata la fonte di WikiLeaks. Doveva scontare 35
«I miei primi passi verso la libertà». È uscita ieri alle due del pomeriggio Chelsea Manning, dopo sette anni passati rinchiusa a Fort Leavenworth in Kansas. Indosso, un paio di scarpe da ginnastica e una maglietta a righe, che si intravede in uno dei post pubblicati su Instagram subito dopo la liberazione. Per festeggiare, una […]
«I miei primi passi verso la libertà». È uscita ieri alle due del pomeriggio Chelsea Manning, dopo sette anni passati rinchiusa a Fort Leavenworth in Kansas. Indosso, un paio di scarpe da ginnastica e una maglietta a righe, che si intravede in uno dei post pubblicati su Instagram subito dopo la liberazione. Per festeggiare, una fetta di pizza. Doveva capitare nel 2045. È successo ieri, durante la giornata mondiale contro l’omofobia. Trentacinque anni di prigione aveva stabilito il giudice. La colpa, aver divulgato 700.000 documenti segreti passati a WikiLeaks nei quali venivano mostrate le atrocità e i massacri compiuti dall’esercito statunitense in Iraq e in Afghanistan. Poi, il 17 gennaio scorso, la notizia. Il presidente uscente Obama ha voluto commutare la pena allontanando così da sé l’etichetta di leader americano che più ha abusato dell’Espionage Act. Quella di Chelsea – anche se già si parla di film e documentari dedicati alla sua vita – non è una favola a lieto fine. Nella storia del soldato Manning il bianco e il nero non sono mai netti come le righe della sua maglietta. Quando tutto ha inizio, 29 anni fa, Chelsea è ancora Bradley. Occhi azzurri, capelli biondi, un padre ex marine, questo scricciolo di 1,57 metri di altezza e 48 chili di peso, ancora prima di entrare nell’esercito impara il significato della parola dolore. A 13 anni si rende conto che il suo genere non corrisponde al suo sesso. Se ne va di casa, vive per strada, si attacca alla bottiglia. Si salva perché è capace in informatica. Si arruola. Nel 2009 finisce in Iraq con la 10th Mountain Division. E lì vede l’orrore della guerra, quello di fronte al quale stare in silenzio è un crimine tanto quanto uccidere. Nella cella di 6 metri quadrati, Chelsea tenta il suicidio due volte. Subisce torture, secondo l’Onu. Il suo avvocato Chase Strangio denuncia come abbia trascorso 11 mesi in isolamento e sia stata obbligata a dormire nuda. Ma vince almeno una battaglia e in carcere ottiene il permesso di cambiare sesso, primo caso al mondo. Mentre è in cella il Pentagono elimina il divieto per i transgender di prestare servizio nell’esercito. E ora? Per il momento il soldato Manning resta in servizio non pagato senza obbligo di dimora. Ma Chelsea deve affrontare la paura più grande, quella del futuro. «Temiamo possa essere un bersaglio», dicono i suoi legali e gli amici che l’hanno sostenuta. Quindi niente apparizioni in pubblico o interviste. «Diventerà un’attivista», dicono in tanti. Da capire poi se il rilascio di Chelsea avrà delle conseguenze per Julian Assange, rinchiuso nell’ambasciata ecuadoriana a Londra dal 2012. «Mi consegno agli Usa se Obama grazia Chelsea», aveva dichiarato il fondatore di WikiLeaks, accusato di spionaggio dagli Stati Uniti. Poi, però, alla notizia che il presidente uscente aveva deciso di far tornare la whistleblower libera, Assange aveva fatto marcia indietro. «Non ha ricevuto la grazia, ma una commutazione della pena», era stata l’ultima versione dei suoi legali. Poi più niente fino a ieri. Quando l’hacker il cui destino più di tutti è legato a doppio filo a quello di Chelsea ha twittato: «Non vedo l’ora di rivederla». (Corriere della Sera)