Basta l’autocertificazione per sottrarre all’Italia i capolavori dell’arte. L’accusa contro la legge sulla circolazione di beni culturali
Cosa hanno in comune la difesa del nostro patrimonio artistico e le furbizie di un po’ di bidelli, maestri, agenti di custodia di Agrigento? Molto. Una stupefacente sentenza della Cassazione, infatti, conferma una volta per tutte che delle autocertificazioni, se non vengono varate norme durissime per chi truffa, non ci possiamo fidare affatto. Senza pene […]
Cosa hanno in comune la difesa del nostro patrimonio artistico e le furbizie di un po’ di bidelli, maestri, agenti di custodia di Agrigento? Molto. Una stupefacente sentenza della Cassazione, infatti, conferma una volta per tutte che delle autocertificazioni, se non vengono varate norme durissime per chi truffa, non ci possiamo fidare affatto. Senza pene serie, tana libera tutti. Ma partiamo dall’inizio. E cioè da quell’articolo 68 del disegno di legge sulla circolazione internazionale dei Beni culturali in discussione al Senato. Articolo difeso a spada tratta da Dario Franceschini («razionalizza la disciplina allineandola a quanto avviene in tutta Europa» e «nessun bene vincolato potrà uscire in via definitiva dal Paese né le opere incluse nelle collezioni dei musei» ma solo quelle «di proprietà privata non vincolate») e messo sotto accusa da esperti, studiosi, intellettuali come una «Legge svendi-arte». Accusa firmata da personalità diverse come l’archeologo Salvatore Settis, l’architetto Stefano Boeri o il musicista Paolo Fresu. Per non dire di Tomaso Montanari e Vittorio Sgarbi, da sempre cane e gatto ma per una volta uniti nel lanciare l’allarme. Breve riassunto con le parole di Fabio Isman, autore di libri quali “I predatori dell’Arte perduta”: «Il Codice dei Beni culturali prevede oggi che per vendere o trasferire opere d’arte all’estero si rispettino alcuni vincoli imposti dalle Soprintendenze. Uno di questi è che le opere “vecchie” di più di 50 anni devono passare al vaglio degli appositi uffici, prima di poter essere esportate. L’articolo 68 cambia il requisito: saranno 70 gli anni previsti affinché un’opera venga considerata di rilievo e quindi passata al vaglio delle Soprintendenze. Per intenderci: le opere prodotte fra il 1947 e il 1967 (firmate da artisti come Morandi, De Chirico e Guttuso…) potranno infine lasciare l’Italia». Al centro delle polemiche più roventi, come ha spiegato Rita Querzè, c’è l’autocertificazione. Il dubbio è che «molti saranno tentati dall’autocertificare che le proprie opere stanno sotto i 13.500 euro anche se così non è, facendo uscire dal Paese beni preziosi. Nelle Soprintendenze i funzionari fanno notare che i vincoli sono pochissimi. Sulla piazza di Milano, per esempio, nel 2016 il vincolo è stato posto su meno dell’1% delle opere portate all’esame dell’ufficio esportazione». E «se il valore così autocertificato è inferiore ai 13.500 euro», attacca Montanari, «il mercante non deve neppure presentare l’oggetto d’arte all’ufficio di esportazione: si limita a inserirlo in un apposito elenco sul suo registro informatico e può esportarlo in qualunque momento a meno che il Soprintendente, mosso da curiosità, consultando sul suo computer il registro del mercante, non gli chieda di presentare quel determinato oggetto in ufficio per una verifica dell’autodichiarazione». Controlli, per legge, «a campione». E affidati, con tutto il rispetto per i periti più preparati, a chissà chi. Un esempio della realtà italiana oggi? Il caso del «San Pietro penitente» di Jusepe de Ribera, detto «lo Spagnoletto», narrato ne “L’Italia dell’arte venduta”. Dove Isman racconta come gli ultimi proprietari italiani avessero portato l’opera per una perizia a Venezia sotto Natale dove due «esperti» (quello che ci capiva un po’ era assente) avevano messo a verbale che la tela era «opera di scuola bolognese della prima metà del XVII secolo», non possedeva «né la nobiltà, né la qualità artistica» per essere vincolata e non vantava neanche «un’attribuzione certa». Via libera all’export. Pochi mesi e la «crosta» finita in Spagna e descritta dal direttore del Prado Alfonso Pérez Sánchez come «un’opera bellissima, tra le massime figure dell’età barocca», veniva comprata dal Metropolitan di New York per un milione di dollari. Era il 2011. Ieri. Va da sé che, in un panorama dove è facile far uscire un’opera da un milione di dollari, le pene per chi certifica il falso dovrebbero essere durissime. Magari! Si pensi alle sanzioni indecorosamente grottesche per decine di migliaia di falsi invalidi, per i 321 «comunali» napoletani che si erano aumentati lo stipendio auto-certificando di avere a carico parenti vari, ai 96 tassisti romani che per rinnovare la licenza dichiararono (falso) di avere la fedina pulita, alle 931 notizie dedicate dall’Ansa a questo tema… La goccia che fa traboccare il vaso però è una sentenza della Cassazione le cui motivazioni sono state rese note giorni fa. Riassunto: per essere nominati ai vertici dell’Asi (Azienda di sviluppo industriale) di Agrigento, nomina utilissima ad esempio ai dipendenti pubblici per ottenere il trasferimento il più vicino possibile alla Valle dei Templi a dispetto di altri che ne avevano più diritto, diversi bidelli e dipendenti dell’Enel, maestri e segretari scolastici ma soprattutto agenti di custodia avevano dichiarato il falso. E firmato un modulo dove giuravano di essere in possesso di un «titolo di studio adeguato all’attività dell’organismo», d’avere una «esperienza almeno quinquennale scientifica ovvero di tipo professionale o dirigenziale o di presidente o di amministratore delegato maturata in enti o aziende pubbliche o private di dimensione economica e strutturale assimilabile a quella dell’ente interessato », di vantare la «qualifica di magistrato ordinario, amministrativo o contabile in quiescenza o di docente universitario di ruolo…». Tutto chiarissimo. Eppure il giudice di primo grado, il Gip agrigentino Stefano Zammuto, pur riconoscendo che «il titolo di studio adeguato» andava identificato «col diploma di laurea», assolse tutti nel 2012 perché avevano sì dichiarato il falso, ma non «attraverso scritture autonomamente predisposte dagli interessati, frutto di personale meditata elaborazione » bensì «previa sottoscrizione acritica di modelli prestampati»… Il procuratore Ignazio Fonzo, sconcertato, fece appello. Concluso con un ritocco: 15 giorni di pena. E non per tutti. E ovviamente senza il rimpatrio per i furbetti negli uffici, in Piemonte o in Friuli, da dove erano tornati con l’imbroglio. La Cassazione, se possibile, è stata di manica ancora più larga. Tutti assolti. Tra le chicche del verdetto la «coordinata esegesi» di ciò che significa un «titolo adeguato». Macché laurea! «Evoca piuttosto, l’adeguatezza, sostanziali nozioni di convenienza, proporzione ed equità che, come tali, ben possono prescindere dal conseguimento di un formale titolo». Quanto alla richiesta di esser stati magistrati o docenti universitari o di avere cinque anni di esperienza da manager, la pretesa «risulta distonicamente rappresentata e quindi non utilmente evocabile ai fini di una corretta interpretazione della norma». La farsa è finita, andate in pace. E noi dovremmo affidare il nostro tesoro artistico alle autocertificazioni? (Corriere della Sera)