La guerra fredda sui cieli della Siria, ma tra Usa e Russia la minaccia è l’Iran
Proxy War, guerra per procura. È così che viene definito il conflitto siriano, nato come guerra civile ma rapidamente trasformatosi in un confronto indiretto, ma aperto, fra una serie di soggetti: da una parte Iran e Russia, dall’altra Stati Uniti e paesi sunniti, in primo luogo l’Arabia Saudita. Ma è proprio sul concetto di “indiretto” […]
Proxy War, guerra per procura. È così che viene definito il conflitto siriano, nato come guerra civile ma rapidamente trasformatosi in un confronto indiretto, ma aperto, fra una serie di soggetti: da una parte Iran e Russia, dall’altra Stati Uniti e paesi sunniti, in primo luogo l’Arabia Saudita. Ma è proprio sul concetto di “indiretto” che fatti verificatisi in questi ultimi giorni inducono a sollevare dubbi e interrogativi. L’abbattimento da parte di un F-18 americano di un SU-22 dell’aviazione siriana ha suscitato non solo una dura reazione della Russia ma la sospensione da parte di Mosca dell’accordo del 2015 con Washington che stabiliva meccanismi (una sorta di “linea rossa”) per la prevenzione di incidenti fra velivoli dei due paesi attivi sul teatro di guerra siriano, un accordo che, secondo la denuncia del Ministero della Difesa russo, sarebbe stato disatteso da parte americana. Alla protesta si è aggiunta una minaccia: la Russia annuncia che considererà un legittimo bersaglio qualsiasi aereo della coalizione anti-Isis che compia operazioni a ovest del fiume Eufrate. Un’analisi dei vari aspetti della situazione fa emergere le contraddizioni di un conflitto molto più complicato di altri casi di guerra per procura. Per capire perché la politica americana nei confronti del conflitto siriano non può funzionare, proviamo a immaginare che Inghilterra e Francia avessero deciso di intervenire nella guerra civile spagnola per impedire la vittoria dei franchisti, appoggiati da Germania e Italia, ma allo stesso tempo per evitare che prevalessero le forze repubblicane sostenute dalla Russia. La Russia e la Siria denunciano l’abbattimento di un cacciabombardiere impegnato nella “lotta al terrorismo” (ovvero in un attacco allo Stato Islamico nei pressi della sua “capitale”, Raqqa), ma il fatto è che ad essere bombardate erano le milizie delle Syrian Democratic Forces – Sdf, che stanno combattendo lo Stato Islamico come parte dell’offensiva della coalizione a guida americana. Ecco la prima ragione per cui risulta sempre più difficile evitare che questa guerra per procura si trasformi in uno scontro diretto. Il regime siriano – appoggiato da Russia e Iran – combatte certo contro lo Stato Islamico, ma la sua vera priorità non sembra essere quella di debellare un progetto politico che non sembra avere molto futuro dal punto di vista del controllo territoriale. Lo Stato Islamico, fin dall’inizio aspirazione più che realtà, sta già trasformandosi, in stile Al Qaeda, in un’impresa terroristica transnazionale. Il nemico vero, per Assad, è la galassia di movimenti che combattono contro il regime, uno schieramento egemonizzato dal jihadismo radicale, ma dove i gruppi relativamente più moderati (come l’ Sdf) hanno il vantaggio, nella prospettiva di un per ora ipotetico ma alla lunga inevitabile dopo-Assad, dell’appoggio americano. Due giorni fa un altro episodio ha ulteriormente dimostrato quanto sia problematico mantenere la definizione del conflitto siriano come guerra civile/guerra per procura, e quanto sia inquietante la prospettiva di un’escalation che potrebbe innescare una guerra vera, non più un confronto indiretto. Il lancio di una serie di missili da Kermanshah, nel Kurdistan iraniano a Deir ez Zor, territorio siriano sotto controllo dello Stato Islamico – rappresaglia per l’attacco terrorista al Parlamento iraniano e al mausoleo di Khomeini – segna un altro passo inequivocabile verso il passaggio a una internazionalizzazione del conflitto siriano. Quello che è da temere non è tanto uno scontro militare fra americani e russi, anche se sembra difficile escludere pericolosi incidenti, ma un conflitto Usa-Iran. In questo senso gli attentati di Teheran hanno funzionato alla perfezione, avvicinando la prospettiva di un’altra guerra in Medio Oriente, tanto più se si mettono in relazione questi “fatti sul terreno” con la svolta della Washington di Trump in direzione di una politica di cambiamento di regime in Iran. Gli iraniani, dopo l’attacco nei due luoghi più emblematici della Repubblica Islamica, dovevano “fare qualcosa”, ed è significativo che il lancio dei missili sia stato effettuato da quei Guardiani della Rivoluzione, i Pasdaran, che sono a un tempo forza armata d’élite e potente soggetto politico critico nei confronti del progetto di apertura e dialogo del presidente Rouhani. Gli incidenti fra Russia e America si possono ancora riassorbire, quelli fra l’America e l’Iran sempre meno. Si conferma così che aver rifiutato una soluzione negoziata del conflitto siriano – che, come ha più volte ribadito il mediatore Onu Staffan de Mistura, poteva solo essere di compromesso – è stato non solo un crimine dal punto di vista umanitario (non sconfiggere il nemico e nello stesso tempo rifiutarsi di trattare con lui è moralmente indifendibile nella misura in cui protrae le sofferenze della popolazione) ma un colossale errore politico, un’irresponsabilità che pagheremo tutti, e non solo i protagonisti diretti di questa enorme tragedia. (la Repubblica)