Parliamo di Ischia. E lo facciamo partendo da una premessa: l’isola è patrimonio dell’umanità. Chi ci abita ha il diritto di essere orgoglioso di esserci nato e di viverci ma ha anche l’obbligo di conservare e tramandare questi luoghi incantevoli intatti alle future generazioni. Il sacco edilizio subìto è un dato acquisito. Che alla devastazione […]
Parliamo di Ischia. E lo facciamo partendo da una premessa: l’isola è patrimonio dell’umanità. Chi ci abita ha il diritto di essere orgoglioso di esserci nato e di viverci ma ha anche l’obbligo di conservare e tramandare questi luoghi incantevoli intatti alle future generazioni. Il sacco edilizio subìto è un dato acquisito. Che alla devastazione del territorio, allo sfregio di luoghi di incomparabile bellezza paesaggistica abbiano concorso spesso le autorità pubbliche è storia. Come sono storia le omissioni della classe politica ischitana che per decenni non ha visto, ha agevolato per ragioni di consenso elettorale o finto di non vedere il sacco edilizio di coste e aree interne. Sono pagine di storia di letteratura giudiziaria isolana anche certi comportamenti criminogeni assunti da chi anni addietro decise di costruire a Casamicciola, in un bosco raso al suolo, una caserma della Forestale che oggi è monumento allo spreco di denaro pubblico. Oggi il sacco edilizio isolano continua. Sotto gli occhi di tutti. Soprattutto di uno Stato assente. O peggio silente. Chi deve impedire l’edificazione selvaggia? I vigili urbani? Nei sei comuni (campanilismo che moltiplica stipendi politici pagati con tasse esorbitanti pagate dai cittadini) i caschi bianchi non sono sotto organico, sono spariti. Non si assumono vigili da anni. Si fa un po’ di clientela politica in estate con le assunzioni dei cosiddetti “vigilini stagionali” che durano il tempo di capire qualcosa e poi tornano a casa. Si fa anche un po’ di sceneggiata facendo arrivare, in prestito, qualche “pizzardone” da comuni del nord Italia, giusto per fare qualche bagno a Ischia e niente più. Intanto la speculazione edilizia affaristica va avanti, come gli abusi edilizi di necessità. Non ci sono zone vergini. Fan paura i comportamenti omissivi e commissivi dello Stato. Di recente si sta provando in ogni modo, anche in buona fede, a cambiare radicalmente e in peggio il volto di un borgo antico che altrove sarebbe posto sotto una teca. È il caso di Ischia Ponte o Borgo di Celsa. Da tre anni all’ingresso di questo borgo hanno sradicato un vigneto millenario per scavare un parcheggio interrato sotto il livello del mare e fare un enorme centro polifunzionale (Ischia ne ha un altro a poche centinaia di metri che va in malora) usando fondi europei. Ebbene scavano da anni. E da anni ci sono sorgenti di acqua calda, terreno e sabbia che gettano a mare. Compromettendo presumo anche posidonia e fauna marina della zona. Senza contare tre anni di frastuono di gru, trivelle e betoniere che appestano la zona con miasmi e rumori oltre ogni limite della decenza. Fa rabbia il degrado in cui versa il lungomare di Ischia Ponte intitolato al Re Alfonso D’Aragona il Magnanimo. La strada che costeggia il mare cristallino in cui si specchia il Castello Aragonese, simbolo dell’isola, viene usata come retrobottega, parcheggio per auto, tavolini in ordine sparso, deposito di monnezza, orinatoio notturno, parco dell’amor proibito o dello spinello o parco giochi per giostrai nelle feste di piazza. Altrove questa strada sarebbe patrimonio dell’umanità, a Ischia è il regno della volgarità. E siccome al peggio non c’è limite, c’è qualcuno al Comune di Ischia che ha deciso che sulla scogliera della baia si possono sistemare piattaforme (una è in montaggio) da adibire a solarium o ristorante. Per capire quanto stona questa scelta, basta guardare dal lungomare il Castello Aragonese. La linea di costa viene interrotta dalla visione di tubolari, putrelle di ferro ficcate negli scogli, tavolati e chissà cos’altro a lavori ultimati. Questo sconcio durerà mesi. E saranno i mesi in cui a Ischia verranno i turisti e apprezzeranno i modi in cui storpiamo la nostra bellezza. Ovviamente il rispetto per il ristoratore che ha ottenuto la concessione (perché immaginiamo ci sia una concessione), non per chi gli ha concesso di fare quello scempio inutile nel deserto. Perché una classe dirigente che vuole bene al bene comune che amministra, per mettere a reddito un lungomare così bello, chiuderebbe al traffico la strada, la farebbe spazzare ogni giorno, la attrezzerebbe con fiori e piante e pretenderebbe infine di uniformare dal punto di vista estetico l’arredo. Invece no. Si preferisce accompagnare il degrado con gli sconci, coprendo storia e bellezza con ferro, cemento, ponteggi e tavolati di legno. A proposito, la soprintendenza nel regno di Nettuno (così si doveva chiamare l’area marina protetta di Ischia e Procida che si è inabissata) che cosa fa? (la Repubblica)