Il figlio preferito? Esiste. Difficile ammetterlo ma secondo un’indagine è così per oltre il 70 per cento dei genitori

4 luglio 2017 | 16:47
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Il figlio preferito? Esiste. Difficile ammetterlo ma secondo un’indagine è così per oltre il 70 per cento dei genitori

Il figlio preferito c’è, ma non si dice. Nessun genitore confesserebbe chi è il cocco fra la sua prole: è questo il segreto dei segreti, gran tabù indicibile, inconfessabile, anche se ben presente in una zona indefinita fra mente e cuore di madri e padri. Ma la domanda non va fatta, è sconveniente per qualsiasi […]

Il figlio preferito c’è, ma non si dice. Nessun genitore confesserebbe chi è il cocco fra la sua prole: è questo il segreto dei segreti, gran tabù indicibile, inconfessabile, anche se ben presente in una zona indefinita fra mente e cuore di madri e padri. Ma la domanda non va fatta, è sconveniente per qualsiasi genitore. A meno che non ci sia garanzia di anonimato. Le ricerche parlano chiaro. Il 75% delle mamme ammette di avere un prediletto (ricerca 2016 del Journal of Marriage Psicology), mentre in un’indagine dello stesso giornale di qualche anno prima confessavano lo stesso sentimento anche i padri, al 70%. Quindi, assodato che i favoritismi ci sono, prenderne consapevolezza deve essere, oggi, la soluzione migliore. È quanto sostiene la psicologa americana Ellen Weber Libby nel suo ultimo libro The favorite Child, il figlio prediletto: non rimanere vittima di sensi di colpa, ma guardare la realtà dentro di noi per neutralizzare gli effetti negativi che i favoritismi possono scatenare, sia nei figli prescelti, caricati di troppe aspettative, che in quelli negletti, colpiti nell’autostima. «Il favoritismo esiste, ma non deve più essere un tabù o una vergogna: va affrontato, per migliorare i rapporti familiari», scrive Libby. Perché nel grande caleidoscopio dei sentimenti la percezione che ogni figlio ha di sé è importante, ma può anche essere fuorviante in quanto è legata a periodi della vita dei genitori o dei figli: «Spesso si dice che sono i primogeniti i favoriti», aggiunge lo psicologo Alberto Pellai. «Ma bisogna tener conto che i figli nascono in zone diverse della vita dei genitori e ogni figlio intercetta un pezzetto della loro storia. Il primogenito spesso riceve più cure, ma questo non vuol dire che riceva anche più amore; significa solo che i genitori, inesperti e più ansiosi, fanno il rodaggio con lui». Libby poi dà anche alcuni suggerimenti per una politica più sana di equilibrio familiare. Primo non fare paragoni, non dire mai «Perché non fai come tuo fratello?», ogni figlio è unico e diverso. Secondo: non fare quel che un tempo si diceva figli e figliastri. Se in casa c’è un Maradona in erba che vuol giocare tutti i weekend a calcetto, non dimenticarsi di onorare anche le passioni sportive della piccola, più portata per la pallavolo. Un tempo studiava solo il primogenito, oggi si cerca di far emergere i talenti di ognuno, perché non succeda come in casa Pennacchi, dove negli anni Sessanta il piccolo e talentuoso Accio non poteva andare al classico perché «basta un figlio che andrà all’università», come poi raccontato da Antonio Pennacchi nel Fasciocomunista, diventato film dal titolo Mio fratello è figlio unico (rubando l’idea al mitologico brano di Rino Gaetano). Terzo: cercare un feedback, mettersi alla prova, chiedendo ad amici e parenti un parere su se stessi come genitori. Insomma, non stancarsi di confrontarsi. E infine, quarto: saper ascoltare i loro lamenti e le loro recriminazioni. «Se vi accusano di favoritismi, resistete alla tentazione di negare o di giustificarvi, ma state a sentire e cogliete l’opportunità di dialogo». Ma soprattutto, aggiunge Pellai, «fate domande: è un modo per scoprire le diverse esigenze di ogni figlio». Alberto Pellai e sua moglie Barbara Tamborini, psicopedagogista a sua volta, hanno due maschi e due femmine. Capita mai che qualcuno vi venga a dire di sentirsi trascurato, figlio negletto? «Tutti i giorni, ognuno viene a dirci che pensa che favoriamo gli altri. E questa è la garanzia che abbiamo fatto un ottimo lavoro». (Corriere della Sera)