La procura di Roma chiede l’archiviazione dell’indagine sull’omicidio di Ilaria Alpi: “Impossibile arrivare alla verità”
«Sono furibonda. E molto amareggiata», dice la signora Luciana Alpi. «La richiesta d’archiviazione non me l’aspettavo. C’erano tutti gli elementi per riaprire il caso. Ormai sono disillusa. Non credo più nella giustizia. Si è fatto di tutto per perdere tempo: 16 mesi per fare una rogatoria e stabilire che l’unico grande testimone di questa vicenda […]
«Sono furibonda. E molto amareggiata», dice la signora Luciana Alpi. «La richiesta d’archiviazione non me l’aspettavo. C’erano tutti gli elementi per riaprire il caso. Ormai sono disillusa. Non credo più nella giustizia. Si è fatto di tutto per perdere tempo: 16 mesi per fare una rogatoria e stabilire che l’unico grande testimone di questa vicenda aveva detto il falso. Una vergogna. Ma non mi arrendo. Fino a quando potrò, inseguirò la verità». La morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin è destinata a restare senza un colpevole. Quell’agguato nella Mogadiscio scossa dai primi lampi di una guerra civile che dura ancora adesso è ancora un buco nero avvolto dai misteri e dalle menzogne. Per la seconda volta in dieci anni la procura di Roma ha chiesto di archiviare il caso perché è impossibile individuare i killer, i mandanti e il movente del duplice delitto. Con una motivazione di 80 pagine, la pm Elisabetta Ceniccola e il procuratore capo Giuseppe Pignatone spiegano che il tempo (23 anni), le condizioni attuali della Somalia e l’assenza di qualsiasi traccia sui possibili assassini e mandanti, rendono difficile poter riaprire un procedimento che faccia luce su uno dei grandi misteri italiani. Federazione della Stampa e sindacato Rai (Usigrai) esprimono «rabbia e sconcerto». «Riteniamo – dicono in un comunicato – che la ricerca della verità debba proseguire non solo nei confronti delle vittime ma anche perché in uno stato di diritto non possono essere consentite omissioni e reticenze». La verità storica è quasi sempre diversa da quella giudiziaria. È raro trovare in sede processuale conferma degli elementi che il tempo e le circostanze offrono nel corso degli anni. Gli indizi non sono prove. Restano dei sospetti. E i sospetti, sebbene coincidenti e ripetuti, non sono sufficienti a formulare un verdetto di colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio. I killer di quell’agguato, avvenuto il 20 marzo del 1984 a Mogadiscio, sono stati loro stessi inghiottiti dal buco nero che avvolge tutta questa tragedia. Probabilmente sono morti. Spariti anche i testimoni che hanno assistito alla violentissima sparatoria. Come molte prove. Una tra le tante: alcuni taccuini su cui Ilaria aveva raccolto gli appunti del suo ultimo servizio, quello che l’aveva portata verso l’estremo lembo settentrionale della Somalia, a Bosaso, per intervistare il sultano del posto. Erano nei suoi bagagli, caricati a bordo della nave militare italiana che avrebbe riportato a casa le due salme. L’agguato a Ilaria e Miran è stato premeditato. Insolito. Unico nel suo genere, sebbene a Mogadiscio nessuno si poteva sentire al sicuro. In guerra muoiono anche i giornalisti. Ma chi ha ucciso i due inviati del Tg3 sapeva dove erano andati, cosa avevano fatto, cosa raccolto, cosa chiesto e visto. Ha teso una trappola a due scomodi testimoni di una verità imbarazzante. Forse un traffico d’armi, forse un traffico di rifiuti. Probabilmente entrambi, organizzati e portati a termine attraverso le navi che la nostra Cooperazione internazionale aveva fornito alla Somalia di Siad Barre. Ipotesi, naturalmente. Ma supportate da una serie di testimonianze poi smentite e riconfermate; smontate infine da due Commissioni parlamentari d’inchiesta e da quattro indagini. Ed è proprio questo susseguirsi di mezze verità e tante menzogne ad aver sollevato il polverone. Sostenere, come fa adesso la procura, che non ci siano stati depistaggi nella tragedia di Miran e Ilaria lascia interdetti. C’è una sentenza, della Corte d’Appello di Perugia, che afferma esattamente il contrario. È stata emessa il 19 ottobre scorso. Ha stabilito che l’unico condannato (ad una pena di 26 anni), il somalo Hashi Omar Hassan, era innocente. Il supertestimone che lo indicava tra i killer dei due giornalisti, Ahmed Ali Rage, ha ammesso di aver detto il falso perché «gli italiani avevano fretta di chiudere il caso». Nessuno, inquirenti in testa, si è mai preoccupato di verificare se il supertestimone avesse detto la verità. Rage, dopo il suo verbale d’accusa, ha potuto espatriare e vivere alla luce del sole prima in Germania e poi in Inghilterra. È stata una giornalista della trasmissione di Rai 3 “Chi l’ha visto?” ad averlo rintracciato. Alla collega ha detto quello che poi ha ripetuto davanti ai giudici: era stato convinto ad accusare il somalo di turno. Ma non è bastato neanche questo a squarciare il velo di menzogne e ipocrisie che ha seppellito definitivamente un crimine ancora scomodo per molti. (la Repubblica)