«Salvador Dalì è mio padre». Il giudice ordina la riesumazione del corpo dell’artista per la prova del Dna
Dalì amava i colpi di teatro. Ma, forse, non avrebbe mai potuto prevedere quanto è accaduto lo scorso 26 giugno. Una giudice di Madrid ha ordinato l’esumazione della sua salma. Perché? Una donna, Pilar Abel, sostiene di essere sua figlia. La signora Abel (nata nel 1956) afferma che sua madre, allora domestica di una famiglia […]
Dalì amava i colpi di teatro. Ma, forse, non avrebbe mai potuto prevedere quanto è accaduto lo scorso 26 giugno. Una giudice di Madrid ha ordinato l’esumazione della sua salma. Perché? Una donna, Pilar Abel, sostiene di essere sua figlia. La signora Abel (nata nel 1956) afferma che sua madre, allora domestica di una famiglia di Figueres in vacanza a Cadaques (sulla Costa Brava), avrebbe avuto nell’estate del 1955 una relazione clandestina con Dalì. Si è rivolta, perciò, al tribunale di Madrid, chiedendo, in quanto erede finora «negata», che venga riconosciuta la paternità del pittore catalano; e ha fatto causa alla Fondazione Dalí e al ministero delle Finanze iberico. Il magistrato, pertanto, ha disposto che venga prelevato il dna dell’artista morto il 23 gennaio del 1989 e sepolto a Figueres, per verificarne la compatibilità con quello della presunta figlia, poiché «non esistono resti biologici né oggetti personali sui quali praticare la prova del dna». La data dell’esumazione non è stata fissata: secondo l’avvocato della donna, dovrebbe avvenire in questo mese di luglio. Possibile? Si ha la sensazione di trovarsi dinanzi a una situazione da film di Buñuel. Si resta interdetti davanti a una vicenda di questo tipo. Soprattutto se si pensa al dialogo ambiguo che il maestro surrealista ha intrattenuto con la sessualità, oscillando tra disinibizione e pudore. Sulle orme della filosofia di Freud, Dalì – che è un po’ Barbiere di Siviglia, un po’ muezzin pazzo – intende l’arte come artificio per dire se stesso, per liberare l’inconscio, per dare forma alle pulsioni psichiche e alle forze che ci governano. Egli vuole rendere concrete le emozioni sottese ai rapporti familiari e sentimentali. Dà voce al perturbante e alle malattie della mente: voyeurismo, disgusto, orrore, inquietudini edipiche. Le sue opere, perciò, si offrono come cartografie psicopatologiche, dove si rappresentano le nostre repressioni mai svelate e le nostre perversioni. Il volto «artistico» di questo grande eccentrico dell’arte è in contrasto con la sua identità privata. Dalle narrazioni di alcuni tra i suoi amici più cari, l’architetto Oscar Tusquets Blanca e la sua musa Amanda Lear, emerge l’identikit di un artista poco incline alla «vera» intimità. I suoi rapporti personali erano sempre filtrati: mediati da una distanza di sicurezza. Dalì amava guardare, spiare, idealizzare, sublimare o profanare, ma tendeva a non lasciarsi contaminare dai corpi. L’universo della sessualità andava interrogato, studiato, perlustrato nei suoi anfratti misteriosi. Ma non vissuto. Questa «insensibilità» – qualcuno ha parlato di impotenza – era evidente nel modo in cui il «Don Chisciotte in abito da sera» che ha attraversato il Novecento «protetto solo dai suoi sfrenati baffi a ricciolo » (come lo ha definito Ballard) partecipava alle feste «hard» e ai riti amorosi. Da voyeur, non da protagonista. Come rivela il rapporto non consumato con l’amata Gala. È questa la ragione per cui siamo portati a ritenere che la signora Abel abbia inventato la presunta paternità. Anche per entrare in possesso di parte di un’immensa eredità governata con spietato cinismo dalla Fondazione di Figueres, tra le «aziende» più ricche della Catalogna. Come avrebbe reagito Dalì a una notizia tanto assurda? Ne siamo certi: avrebbe sorriso. Appassionato com’era dell’assurdo e dell’inverosimile. (Corriere della Sera)