Caivano. Il racconto dei minori africani dopo la rivolta nella casa famiglia: «Dimenticati in quei ghetti»

10 agosto 2017 | 18:28
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Caivano. Il racconto dei minori africani dopo la rivolta nella casa famiglia: «Dimenticati in quei ghetti»

Sei restano in carcere, due vanno in una comunità. È l’esito dell’udienza di convalida del fermo che si è svolta ieri per gli otto ragazzi africani – sei del Gambia e due della Guinea – accusati di avere sequestrato nel suo ufficio e minacciato, per ottenere soldi ed i documenti, uno dei soci della cooperativa […]

Sei restano in carcere, due vanno in una comunità. È l’esito dell’udienza di convalida del fermo che si è svolta ieri per gli otto ragazzi africani – sei del Gambia e due della Guinea – accusati di avere sequestrato nel suo ufficio e minacciato, per ottenere soldi ed i documenti, uno dei soci della cooperativa che gestisce la casa famiglia Tempio della felicità di Mary, a Caivano. Lasad Azabi, 49 anni, tunisino e mediatore culturale, ha avuto modo di incontrare gli otto e di scambiare con loro alcune impressioni. «Non capivano bene che cosa stesse accadendo – racconta – e neppure si rendevano conto della gravità delle accuse nei loro confronti. Tutti erano stupiti del fatto che, dopo avere invocato a lungo, pacificamente quanto inutilmente, il rispetto dei propri diritti, erano finiti in un guaio nella prima circostanza nella quale avevano provato a farsi valere con metodi sbagliati». Eh sì, perché la vicenda della rivolta nella casa famiglia di Caivano, raccontata nella prospettiva dei minori africani, ha un antefatto che non può essere trascurato. Un lungo preambolo che non giustifica certamente quanto accaduto, ammesso che le accuse nei confronti dei migranti trovino conferma durante il processo, ma aiuta a capire la genesi di un blitz che ha coinvolto tutti gli ospiti della struttura. «Con alcuni di quei ragazzi – riferisce Azabi – ero in contatto da mesi. Ebbene, mi hanno detto più volte che, in un anno di permanenza a Caivano, non era stato avviato nulla, alcun progetto formativo, alcun programma serio di integrazione. Il corso di italiano era durato pochissimo. Il mediatore culturale è un ex ospite della casa famiglia che si è improvvisato, in cambio del vitto e dell’ alloggio. Di formazione professionale – uno dei giovani avrebbe voluto fare il cuoco in Italia, un altro il sarto – neppure a parlarne. No, mi hanno detto, ci hanno messi lì e dimenticati, parcheggiati a non fare praticamente nulla». Una situazione che può sfinire chiunque, figuriamoci dei minori arrivati con i viaggi della speranza dall’Africa. «Allora, se davvero vogliamo raccontare bene questa storia – continua Azabi – non possiamo omettere che l’epilogo è stato determinato anche dalla circostanza che tanti adulti non hanno fatto quello che avrebbero dovuto e per cui hanno incassato soldi pubblici per facilitare l’inserimento degli otto ragazzi africani». «La vicenda – prosegue nella sua riflessione Azabi – testimonia bene quanto inadeguato sia oggi il sistema dell’accoglienza per i migranti in Italia ed in Campania. Bisognerebbe – sottolinea, ribadendo un concetto già espresso ieri da Andrea Morniroli, della cooperativa Dedalus – puntare sempre di più sull’accoglienza dei migranti all’interno dei nuclei familiari italiani. Piuttosto che dilapidare soldi pubblici a beneficio di imprenditori che si sono gettati nell’affare dei centri di accoglienza e sono assolutamente inadeguati a garantire seri percorsi di integrazione culturale, sarebbe meglio investirli per finanziare le famiglie disponibili ad ospitare un immigrato. Si darebbe un sostegno economico a tanti nuclei familiari e si garantirebbero agli stranieri, in particolare ai minori, autentiche opportunità di integrazione». Bisognerebbe, però, abbandonare una volta per tutte la logica dell’emergenza e della paura. «L’Italia – conclude il mediatore culturale tunisino – va in una direzione diversa. Lo dico con dispiacere: oggi io, che sono stato accolto da voi 30 anni fa, quando fuggii dal regime poliziesco di Ben Alì, mi sento per la prima volta straniero. Rifiutato in un paese che mi appartiene, ormai, più della terra dove sono nato». (Corriere del Mezzogiorno)