Giuseppe Di Bianco, il Mozart nato a Maiori: «Mi voleva l’America ma il mio futuro è qui»
A volte ci si chiede se, oltre al sangue, di generazione in generazione, non vengano trasmessi – per qualche misterioso processo osmotico – anche pezzetti di anima. Non una reincarnazione, ma una vera e propria trasmigrazione dell’intimo sentire, da un nonno ad un nipote. È quello che simpaticamente si domanda Giuseppe Di Bianco, compositore di […]
A volte ci si chiede se, oltre al sangue, di generazione in generazione, non vengano trasmessi – per qualche misterioso processo osmotico – anche pezzetti di anima. Non una reincarnazione, ma una vera e propria trasmigrazione dell’intimo sentire, da un nonno ad un nipote. È quello che simpaticamente si domanda Giuseppe Di Bianco, compositore di fama internazionale di Maiori, la cui storia familiare porta nel dna la poesia della musica e la sofferenza vibrante dell’arte. 47 anni, considerato, da piccolo, un Mozart italiano, diplomato al Martucci di Salerno – con studi anche a San Pietro a Majella di Napoli e al Santa Cecilia di Roma – Di Bianco è diventato un punto di riferimento per il mondo della composizione corale. Una carriera folgorante, che trae origine da quei pezzetti di anima di cui era portatore suo nonno. «Sono molto legato alla sua figura, pur non avendolo mai conosciuto. Era un musicista, un concertista di Maiori. Lasciò il suo paese per andare a vivere a Buenos Aires, dove studiò al conservatorio che all’epoca era diretto da un calabrese, Luigi Romaniello». Siamo all’inizio del Novecento. Epoca in cui sono gli italiani ad emigrare: molti pianisti dal Sud fondano scuole ed istituti in Argentina. Il nonno di Di Bianco, porta il nome del futuro nipote, Giuseppe, ma lì si fa chiamare Josè De Bianco. «Era anche pittore. Conserviamo centinaia di dipinti. Era molto amico di Raffaele d’Amato, Gaetano Capone, Luca Albino, Gaetano della Mura, i cosiddetti “costaioli”. La sua tuttavia fu una storia amara. In Argentina era un concertista affermato. Conobbe mia nonna, commerciante di stoffe, una donna pratica e solida». La coppia, che all’inizio pare possa partire nuovamente per Buenos Aires, tuttavia, non lascia più l’Italia. «Mio nonno rimase a Maiori, per tenere insieme la famiglia, ma da lì iniziò la sua tristezza. La Maiori degli anni ‘30 era diversa. Era un ambiente assai povero, arretrato. Forse questa tristezza era dovuta all’aver lasciato una terra ricca d’arte, come lo era l’Argentina. Lo fece per amore. La sua storia mi ha un po’ segnato. Ci sono aspetti della sua sensibilità che ritrovo in me». Anche il bisnonno Taddeo era un musicista. «La musica nella nostra famiglia si porta avanti da quattro generazioni. Mia nonna decise di farmi dare lezioni a otto anni». Dopo i primi tre mesi, l’insegnante di Di Bianco manda a chiamare la madre. L’uomo non riesce più a stare dietro al piccolo Giuseppe, considerandolo un genio. L’episodio scatenante accade quando il bambino, ascoltando un 45 giri, riesce a riscriverne la musica ad orecchio. Il suo destino è segnato. Da pianista ad autore di musica strumentale e da scena, esperto di composizione corale e direttore dell’ensemble vocale “Ars Nova” di Maiori, è diventato tra i compositori corali più importanti nel mondo, con esecuzioni in Italia, Città del Vaticano, Francia, Danimarca, Slovenia, Estonia, Lettonia, Olanda, Spagna, Portogallo, Usa, Russia, Giappone, Filippine. La fama lo porta nel 2008, in qualità di composer-in-residence, nel North Carolina University. Mentre nel 2014 viene incluso nell’ “Invisible Cities Project”, un progetto internazionale, nato per ispirazione a Le città invisibili di Italo Calvino. Poi sarà la volta del Giappone, alla “Fine Arts and Music University” di Aichi. Nel suo percorso, oltre alla figura del nonno, ha pesato non poco anche quella del sacerdote francescano, Enrico Buondonno, famoso per aver composto le musiche di “Francesco, giullare di Dio”, film di Roberto Rossellini. «Avevo 15 anni – racconta Di Bianco – «andavo al convento di Santa Maria degli Angeli a Nocera Superiore. Sostenni l’esame al conservatorio, da esterno. Quando il risultato fu noto, Buondonno mi abbracciò. Mi disse di non fermarmi. “Tu devi cominciare a studiare composizione”. In quest’ottica lui è stato la mia vera figura di riferimento. Avevo scritto un pezzo e lo avevo presentato nel dicembre 2001 ad un concorso a Trento. Su 187 compositori in tutta Europa decretarono vincitore il mio pezzo». Un premio che purtroppo il giovane non riesce a portare all’anziano sacerdote che morirà dopo alcune settimane. «Lessi della sua morte sul giornale. Non riuscii neanche a piangere. Fu come aver perso un padre per la seconda volta. Adesso ho in mente di dar vita ad una pubblicazione che possa analizzare criticamente la sua produzione corale». Intanto Di Bianco continua a comporre. «Scrivere credo sia una proiezione assoluta del nostro mondo interiore. E poi la musica corale mantiene una forte ispirazione spirituale e sacra. A me piace sentirmi investito di un tipo di ricerca, ricerca di se stessi. Penso alle nostre esistenze come a schegge di eternità, di infinito. Siamo esseri di luce che travalicano tutto ciò che è materico». E sulla sua terra, Maiori, Giuseppe Di Bianco ha cercato una mediazione. «Sono un uomo del Sud. Ai giovani dico sempre di non dimenticare le proprie radici, ma di non limitarsi alla Costiera. Certo non possiamo dimenticare le ferite che il nostro paese ci infligge. Eduardo diceva “fuitevenne”. Io ho trovato un compromesso. Quando sono stato in America ho avuto l’opportunità di rimanere lì. Non l’ho fatto. Resto qui perché sto bene col mio mare. Non potrei viverne senza. Diciamo allora che risiedo a Maiori ma la mia vita è altrove. Questa è la mia dicotomia». (La Città)