La seconda vita di Bolt. Ricco, appagato, conteso dagli sponsor. In Giamaica c’è chi lo vuole primo ministro

7 agosto 2017 | 18:23
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La seconda vita di Bolt. Ricco, appagato, conteso dagli sponsor. In Giamaica c’è chi lo vuole primo ministro

Ha sempre avuto i denti giallognoli, i piedi enormi e le gengive da giraffa. È troppo alto per aver osato diventare uno sprinter di successo e troppo pesante per giocare centravanti, come sogna. Ma negli ultimi dieci anni, in tutte le sue incarnazioni da medaglia, ci è sembrato bellissimo. Fumati gli ultimi cento della vita, […]

Ha sempre avuto i denti giallognoli, i piedi enormi e le gengive da giraffa. È troppo alto per aver osato diventare uno sprinter di successo e troppo pesante per giocare centravanti, come sogna. Ma negli ultimi dieci anni, in tutte le sue incarnazioni da medaglia, ci è sembrato bellissimo. Fumati gli ultimi cento della vita, Usain Bolt è l’argomento monotematico di cui si parla nella pancia dello stadio olimpico di Londra, è un rimpianto che nutriamo dall’istante in cui ha tagliato il traguardo dietro le frecce americane Gatlin e Coleman, è l’eletto che si congeda dagli dei del tartan ed esce dalla porta principale nonostante la sconfitta, bye and see you (mica tanto) soon, per tuffarsi nella nuova vita. La notte del bronzo è stata di tensione anche per Bolt. Dopo il bagno di folla, l’ultima domanda di una conferenza stampa sudata e adrenalinica gli ha fatto saltare i nervi. Hai corso più piano perché i test antidoping si sono fatti più severi? «Chiedermi una cosa del genere è irrispettoso!» è sbottato il Lampo mandando scintille dagli occhi, realmente offeso. E per tutta risposta, all’alba di una notte insonne, ha twittato un video che racconta le sue imprese e lo definisce leggenda. Ha perso il Mondiale perché è uscito dai blocchi in modo disastroso (solo il cinese Su, ultimo, ha fatto peggio), perché vivere di rendita affidandosi alla prodigiosa fase lanciata (troppo rigido e imbastito) questa volta non gli è bastato, perché si è allenato troppo poco (la rinuncia ai 200 era un segnale chiaro). Ha perso il Mondiale perché è finita la benzina, il velluto bordeaux dei muscoli è liso, il serbatoio delle facce e dei gesti segna la riserva, game over. Lascia con un patrimonio mostruoso (32 milioni di dollari incassati solo nell’anno olimpico di Rio, fonte Forbes), senza aver più nulla da chiedere all’atletica, e viceversa. Ed è questo senso di bilancio in pareggio, di mutuo scambio alla pari, a disegnargli su quella faccia che ha bucato mille copertine l’aria pacificata che da oggi Bolt si porterà in giro nella routine di giornate da ricostruire, non più ostaggio della disciplina che coach Mills ha saputo imporgli. «Nessun rimpianto». Sì, certo, gli sarebbe piaciuto immergersi sotto i 19’’ nei 200, ma è come cercare il pelo nell’uovo, la sbavatura nel capolavoro. Dopo aver vissuto intensamente il suo sport, a Bolt non resta che vivere lentamente l’esistenza. La sveglia tardi, i bocconcini di pollo fritto di McDonald’s, alcol e fumo quanto basta, il campionario di femmine di una notte sono lussi che si è sempre concesso. Ora, archiviata la formalità della 4×100 che lo attende sabato, c’è da mettere ordine nel caos calmo che gli ruota intorno, dargli un senso, farne una carriera da grande ex e non da orso ballerino chiamato dalla Iaaf a fare la guest star negli eventi di cartello. Al di là delle farneticazioni (il calcio in Premier League, un’utopia, un futuro da politico, un ruolo federale), lo storico sponsor Puma gli darà una mano. Una voce del contratto che da atleta in attività (il giamaicano ha firmato a 15 anni) gli valeva 10 milioni di dollari a stagione, prevede che il Lampo rimanga ambasciatore del marchio tedesco per 4 milioni all’anno. Bjorn Gulden, a.d. Puma, minaccia di farne il manager dell’area caraibica e, da lì, la testa di ponte per aggredire Nike sul mercato americano mai sedotto da Gatlin, ma nessuno sano di mente crede a un Bolt in giacca e cravatta, seduto dietro la scrivania di un ufficio. Un sondaggio condotto in Giamaica dal Gleaner, il principale quotidiano, parla chiaro: lamaggioranza lo vuole allenatore e scopritore di talenti in patria, il 4% sposato con figli, l’1% ministro. Più facile immaginarlo a bordo piscina in Giamaica, davanti alla Playstation con gli amici, ultrà a Old Trafford ogni volta che avrà voglia di mettersi su un volo intercontinentale. Manterrà casa a Londra, la sua base operativa in Europa. E porterà se stesso per il mondo, flemmatico e molleggiato e gigione come l’abbiamo conosciuto nove anni fa a Pechino 2008, quando fece la rivoluzione con una scarpa slacciata. Sarà, soprattutto, grato. Perché cento metri fa, tutto questo non esisteva. (Corriere della Sera)