La strage di Barcellona. Volevano lanciare un Tir contro la Sagrada Familia. I preparativi durati un anno
«Questa patente non va bene». «Perché?», chiede i l ragazzino. «Non hai il permesso, non puoi guidare un camion». Società di noleggio «Telefurgo»; il dialogo risale a una decina di giorni fa. I magistrati spagnoli però lo rileggono adesso, perché manda in ordine un tassello dell’inchiesta che fino a ieri restava sospeso e inquietante: tra […]
«Questa patente non va bene». «Perché?», chiede i l ragazzino. «Non hai il permesso, non puoi guidare un camion». Società di noleggio «Telefurgo»; il dialogo risale a una decina di giorni fa. I magistrati spagnoli però lo rileggono adesso, perché manda in ordine un tassello dell’inchiesta che fino a ieri restava sospeso e inquietante: tra le macerie della villetta occupata di Alcanar, covo usato per fabbricare esplosivi artigianali, saltata in aria mercoledì sera, la polizia ha recuperato un numero spropositato di bombole del gas. Centosei. Troppe, anche a volerle caricare sui tre furgoni affittati per gli attentati di Barcellona e Cambrils. «Quella quantità di gas poteva distruggere un palazzo». Forse qualcosa di più, si scopre ora: l’obiettivo della cellula jihadista era la Sagrada Familia, la cattedrale di Antoni Gaudì. Emblema della città, attrazione turistica, tempio della cristianità. Ecco perché, nelle menti deviate dei giovani islamisti, era diventata un’ossessione. Per distruggerla hanno accumulato per mesi le bombole. E hanno provato ad affittare un camion. Avrebbero massacrato centinaia di persone, ma l’attentato avrebbe avuto anche un impatto simbolico paragonabile all’11 settembre. E allora di fronte a questa prospettiva, a 48 ore dagli attentati, con le vittime che salgono a 14, questa storia bisogna rileggerla dall’inizio. Per rispondere a due domande essenziali: come può una dozzina di ragazzini, cresciuti in un paese di 10.000 abitanti vicino ai Pirenei (Ripoll), concepire un progetto terroristico così abnorme? E che legami hanno con la «casa madre» del Califfato? La risposta sta ancora nel covo disintegrato dall’esplosione innescata per errore mentre preparavano le bombe. Tra cemento e calcinacci, la polizia ha trovato il cadavere martoriato di Sadiq Houli, all’esterno del fratello Mohamed (ferito, poi arrestato), e poi altri brandelli umani, tra cui tre orecchie. Segno che in quella casa sono morti altri due terroristi: uno è Albdelbaki Es Satty, l’imam di Ripoll, marocchino, la guida spirituale e operativa del gruppo, la figura che apre uno scenario più ampio. Soprattutto perché l’uomo ha avuto legami con alcuni terroristi arrestati per le stragi di Madrid dell’11 marzo 2004. E perché la scorsa primavera avrebbe fatto almeno un viaggio in Belgio. È un passaggio chiave: proprio sullo scacchiere Belgio-Spagna-Marocco s’è strutturata una delle reti più consolidate del terrorismo islamista, quella del Gruppo combattente marocchino. Di quel gruppo faceva parte Mohamed Fashi, il capo della cellula che organizzò l’attentato di Nassiriya, e che viveva proprio nei dintorni di Barcellona, a Vilanova i Geltrù. Tutta la Catalogna è però un avamposto dell’islamismo in Europa. Lo dimostrano le 30 indagini antiterrorismo degli ultimi 5 anni, con oltre 60 arresti. È in questo ambiente di radicalismo storico che l’imam Es Satty ha fatto da catalizzatore. Da una parte i suoi legami «pesanti», dall’altra il suo branco di martiri sbandati che, senza una guida, non avrebbe potuto avere una tale capacità operativa: il covo a 300 chilometri dal loro paese per passare inosservati, l’accumulazione di così tanto materiale per le bombe, i contatti con le famiglie troncati da un paio di settimane, la preparazione (secondo il New York Times) durata quasi un anno. In questo tempo la cellula s’è strutturata su tratti analoghi a quelle degli attentati di Parigi (novembre 2015) e Bruxelles (marzo 2016). Origine comune: il Marocco; età ravvicinate: da 17 a 24 anni; fortissima amicizia; e poi i legami familiari interni, con cinque coppie di fratelli. Tutti elementi di compattezza e segretezza. Così i jihadisti di Ripoll hanno navigato sotto traccia senza essere intercettati dall’antiterrorismo. Oggi che la cellula è stata decimata, con 3 morti sotto la villetta di Alcanar, cinque uccisi dalla polizia nel secondo attacco di giovedì notte a Cambrils e quattro arrestati, il lavoro si concentra su due personaggi mancanti e su una rete di «almeno 5-6 fiancheggiatori ». Il primo ricercato è Youssef Aalla, fratello di uno dei morti di Cambrils, ma potrebbero essere suoi i resti umani nel covo. Sicuramente in fuga è invece Younes Abouyaaqoub, 22 anni, che guidava il furgone piombato sulle Ramblas. Ieri è stata giornata di perquisizioni sui bus, blocchi in autostrada, allerta diramata in Francia. (Corriere della Sera)