Reggio Calabria. Campi scout e parrocchie nella villa confiscata all’assassino del giudice torinese Bruno Caccia
Pomodori, melanzane, peperoni, basilico, fichi crescono nell’orto della villa di Rocco Schirripa, il killer del procuratore di Torino, Bruno Caccia ucciso dalla ’ndrangheta il 26 giugno 1983. Frutti che crescono su una terra insanguinata, frutti di speranza. A curare, coltivare, innaffiare, raccogliere sono gli scout del clan “La radice” del gruppo Agesci Pescara 2 e […]
Pomodori, melanzane, peperoni, basilico, fichi crescono nell’orto della villa di Rocco Schirripa, il killer del procuratore di Torino, Bruno Caccia ucciso dalla ’ndrangheta il 26 giugno 1983. Frutti che crescono su una terra insanguinata, frutti di speranza. A curare, coltivare, innaffiare, raccogliere sono gli scout del clan “La radice” del gruppo Agesci Pescara 2 e i ragazzi del gruppo “99/2000” della parrocchia Santo Stefano in Novellara, provincia di Reggio Emilia. Partecipano al campo di lavoro organizzato dall’associazione don Milani di Gioiosa Jonica che ha avuto in gestione il bene confiscato cinque anni fa. Allora nessuno sapeva che Schirripa era il responsabile della morte del magistrato che prima di tanti altri aveva capito e scoperto gli affari dei clan calabresi in Piemonte. «Sapevamo che era un mafioso ma non immaginavamo che avesse commesso quel delitto. Quando tornava da Torino veniva qui a vedere, era gentilissimo», racconta Francesco Riggitano, presidente dell’associazione, ricordando che il secondo piano della villa era rimasto alla famiglia Schirripa . «La moglie invece protestava coi ragazzi che partecipavano ai campi e cantavano la canzone “1-2-3-4-5-10- 100 passi” su Peppino Impastato». Comunque nessuno immaginava che il mafioso fosse coinvolto in quel delitto eccellente. Il 22 dicembre 2015 viene arrestato con l’accusa di essere l’autore materiale dell’omicidio (i mandanti sono stati condannati da anni). «Pochi giorni prima mi aveva addirittura chiesto se la sua auto dava fastidio…». Schirripa ora è in carcere, condannato all’ergastolo lo scorso 17 luglio, ma la famiglia quando torna in paese continua ad abitare al secondo piano della villa, mentre al primo piano dormono i ragazzi dei campi organizzati insieme a Libera. Lo sapevano di venire in un bene confiscato, ma che fosse del killer di Caccia lo hanno scopero solo gli ultimi giorni. E ora riflettono. «Qui non ti accorgi della mafia – dice una ragazza – non vedi quella dei film. Qui la mafia è normalità, non te ne accorgi e per questo è più terribile». Don Giorgio Moriconi, il parroco del Beato Nunzio Sulprizio e di San Marco evangelista, periferia di Pescara, spiega la scelta di essere qui. «Da bene frutto di illegalità a luogo del bene, di legalità. Perché anche le cose negative possono dare frutto. Anche dalle macerie del malaffare può nascere una vita nuova. Il Signore ci dà la possibilità, sta a noi accoglierla». «In questo modo – aggiunge un’altra ragazza col fazzolettone – iniziamo a mettere in pratica l’insegnamento del nostro fondatore Baden Powell, cioè “lasciare il mondo un po’ migliore di come l’abbiamo trovato”. E qui lo facciamo concretamente». «Mi rende felice trovarmi in questo intreccio – commenta Riggitano – Il “don Milani” ha il bene di chi è andato a Torino a commettere delitti e ora quel bene ritorna a casa sua anche grazie all’impegno dei ragazzi che vengono dal Nord e dal Centro». Se la ’ndrangheta esporta illegalità, la società responsabile porta impegno e speranza. Anche nel nome di chi ha dato la vita. Così la villa del killer è intitolata a Vincenzo Grasso, imprenditore di Locri, non lontano da Gioiosa Jonica, ucciso dalla ’ndrangheta il 20 marzo 1989 per essersi opposto alle richieste estorsive. Davvero buoni frutti crescono in questa terra. Frutti di cambiamento. Mentre parliamo davanti alla villa, si avvicina un parente di Schirripa, venuto da Torino, e molto gentilmente chiede se può parcheggiare l’auto nel garage, se non dà fastidio. «Nessun problema», gli risponde Francesco. Poi, sorridendo, mentre ci allontaniamo, aggiunge: «Chi l’avrebbe mai detto». (Avvenire)