RAVELLO. «Un contesto di disperazioni individuali», così la Corte d’Assise definisce il brodo di coltura in cui è maturato, nel marzo del 2015, il delitto di Ravello. La disperazione economica della vittima Patrizia Attruia e di Giuseppe Lima (il compagno «irascibile e violento» che è accusato di averla uccisa); e quella affettiva di Vincenza Di Pino, che per concorso nell’omicidio […]
RAVELLO. «Un contesto di disperazioni individuali», così la Corte d’Assise definisce il brodo di coltura in cui è maturato, nel marzo del 2015, il delitto di Ravello. La disperazione economica della vittima Patrizia Attruia e di Giuseppe Lima (il compagno «irascibile e violento» che è accusato di averla uccisa); e quella affettiva di Vincenza Di Pino, che per concorso nell’omicidio e nell’occultamento di cadavere è stata condannata a 23 anni di carcere. Nelle motivazioni di questa sentenza si parla di lei come di una persona sprovveduta, che in cinquant’anni di vita non ha mai visto il mare, ignora l’esistenza dei cubetti di ghiaccio, non sa nemmeno quale sia il modo esatto per scrivere il suo cognome. Si sarebbe innestato su queste basi quello che i giudici definiscono un rapporto insolito, che vedeva i tre dormire anche nello stesso letto e che però avrebbe finito per alimentare tra le due donne il morbo della gelosia.
Eppure Lima non sarebbe stato né un compagno né un amante affettuoso; dalla ricostruzione processuale emerge «un carattere alterato dallo smodato uso di bevande alcoliche», solito ad alzare le mani e a soggiogare sia Attruia che Di Pino con richieste come quella di lavargli i piedi quando rientrava a xasa. Prima del trasferimento nell’appartamento di Ravello, lui e la compagna vivevano in condizioni «estremamente precarie»: nella baracca dove abitavano «non vi era pavimento, energia elettrica, acqua».
La figura di Lima è tratteggiata con insistenza nelle argomentazioni della sentenza, sebbene il cinquantenne di Pagani sia stato indagato del delitto solo in un secondo momento e il procedimento sia ancora in corso. Secondo i difensori di Vincenza Di Pino, che contro la condanna hanno presentato appello, sarebbe lui solo ad aver ucciso Attruia, assestandole quel colpo alla gola (con una mossa di karate o un bastone) che l’ha soffocata. «Di Pino è stata solo «vittima terrorizzata da quanto accadeva, senza essere protagonista della vicenda» scrivono gli avvocati Marcello Giani e Stefania Forlani nei motivi di appello. La Corte, presieduta da Massimo Palumbo ha invece condiviso le conclusioni del pubblico ministero Cristina Giusti e degli avvocati di parte civile Carlo De Martino e Antonio Langella, spiegando che tutte le risultanze processuali (dalle perizie alla conversazioni dell’imputata intercettate in carcere) convergono su un’aggressione a quattro mani, scatenata da una probabile scenata di gelosia della vittima. E anche se il colpo mortale è stato forse dato da Lima, ciò non esclude – spiegano i giudici – il concorso consapevole nell’omicidio. «Un omicidio stupido, ma non futile né abietto» concludono, che non era premeditato ma che non consente la concessione di attenuati. (c.dm.)
di Clemy De Maio LA CITTA DI SALERNO